Il rumore assordante dei motorini e dei clacson delle automobili che in modo apparentemente disordinato si muovono nel traffico convulso ma non intasato di Hanoi scompaiono non appena si esce dalle porte della città e ci si immerge in una vasta risaia fatta di tanti piccoli fazzoletti di terra curati come giardini di casa. Il Vietnam è un paese agricolo, in cui il riso si coltiva con sistemi tradizionali che si tramandano da generazioni. La vista di tanti piccoli cappelli conici dietro i quali si nasconde un esercito di donne piegate ed immerse fino alle ginocchia per poter trapiantare il riso è una scena comune in questa stagione dell’anno. Ancora oggi, su circa 90 milioni di persone almeno 70 sono occupate e traggono sussistenza dall’agricoltura.
Il boom economico è iniziato nel 1986 con la politica del doi moi (rinnovamento) che ha introdotto una graduale e controllata liberalizzazione dell’economia concedendo, tra le altre misure, l’uso della terra ai contadini e la libertà di vendere i raccolti. Da quel momento il Vietnam ha raggiunto gradualmente l’autosufficienza alimentare, raddoppiato il proprio reddito nazionale, e divenuto il secondo esportatore mondiale di riso. Parallelamente, la possibilità offerta agli investitori privati di aprire imprese ha permesso la rapida privatizzazione delle imprese statali meno efficienti ed attratto un crescente numero di investitori stranieri. In pochi anni e senza grandi rimpianti il Vietnam è passato da una situazione stagnante ad un’economia dinamica.
Alla performance economica, uguagliata soltanto dalla vicina Cina, il Vietnam ha saputo mantenere il controllo sui settori strategici: educazione e salute. Le liberalizzazioni in questi sono graduali e sempre a due velocità: una per far piacere ai maggiori donatori stranieri paladini delle riforme di mercato come la Banca Mondiale e la sua cugina la Banca Asiatica di Sviluppo, l’altra per non lasciare indietro la popolazione con cambi bruschi. Come risultato, durante gli ultimi quindici anni, il Vietnam ha adottato delle misure per la lotta alla povertà che hanno causato una riduzione della quota di persone sotto la soglia di povertà nazionale dal 58 percento nel 1993 al 29 percento nel 2002, fino a raggiungere il 24 percento nel 2005. C’è quindi ancora molto lavoro da fare, anche per le organizzazione della cooperazione internazionale, ma senza dubbio i risultati parlano da soli.
Ma se è vero che nel modello vietnamita c’è molto socialismo, è anche vero che il mercato occupa uno spazio sempre più grande e così le conseguenze che porta. Al processo di crescita del prodotto interno lordo e alla riduzione della povertà non ha fatto seguito un processo di redistribuzione della ricchezza e, al contrario, si sono molto accentuate le disparità regionali, e all’interno di queste, si è accentuato il divario tra il gruppo etnico dominante (i vietnamiti) e i restanti 53 gruppi minoritari, che infatti rappresentano il 14 percento della popolazione ma il 29 percento dei poveri. Questo divario è ancora più evidente se si confrontano le zone urbane, dove si concentra la ricchezza, con quelle rurali dove si trovano ancora delle situazioni di profonda miseria. Il modello di sviluppo del paese non è stato quindi acquisito in modo uguale da tutti i gruppi etnici (e da tutte le province) e gli sforzi per alleviare la situazione di miseria e povertà in cui vivono le minoranze, e gli interventi rivolti alla valorizzazione di questa diversità etnica rimangono circoscritti.
Nonostante questo, i conflitti sociali sono molto limitati, le tensioni urbane non si registrano e le dimostrazioni di protesta contro il governo sono sporadiche seppur genuine. Il socialismo di mercato è modellato su una struttura sociale patriarcale e gerarchica, e pertanto stabile e lenta a cambiare. Il paternalismo che caratterizza questo sistema è in grado di gestire i processi ed è pertanto tollerato, anche se non accettato in pieno, perchè lascia molti spazi all’iniziativa privata. La definizione dei vietnamita di questo modello di socialismo è quella della sfera che deve essere liscia e perfetta al di fuori, cioè deve conferire un’immagine di coesione e lealtà confuciana all’esterno, ma che al suo interno permette di muoversi e intraprendere in piena libertà, sempre dentro lo spazio delimitato della sfera.
Parallelamente agli squilibri territoriali e sociali che inevitabilmente si creano con l’applicazione delle ricette del capitalismo, l’altra sfida importante che il sistema produttivo vietnamita sta affrontando è quella della qualità dei processi di sviluppo (la qualità della produzione, dell’ambiente, dell’educazione, del lavoro, eccetera). La transizione economica dall’economia di “piano” a quella di “mercato”, e la forte accelerazione dei processi di industrializzazione, non sono state accompagnate da un’altrettanto forte crescita della consapevolezza dell’importanza dell’ambiente, della sicurezza sul lavoro, della qualità degli alimenti, eccetera, nei processi di sviluppo. Nella fase in cui si trova il Vietnam oggi, i vantaggi competitivi sono basati quasi esclusivamente sulla disponibilità di un ampio bacino di manodopera a basso costo (almeno un terzo meno di quello cinese) che permette alle imprese di collocarsi nelle catene più basse del valore (tessile, assemblaggio prodotti semi-manufatti, prodotti agricoli di bassa qualità) e a forte rischio di concorrenza dai paesi asiatici vicini.
I processi di modernizzazione dell’economia hanno anche avuto delle ripercussioni sul settore agricolo e sulla società in generale. Infatti, da un lato aumenta la produttività agricola ma dall’altro aumentano i migranti che dalle campagne raggiungono le città e le zone industriali più vicine. Un esercito che ha difficoltà ad integrarsi nel tessuto sociale e che vive ai margini in condizioni abitative e lavorative infime.
Allo stesso tempo il Vietnam è un paese che dimostra una grande capacità di adattamento alle regole imposte dal sistema internazionale (la recente ammissione al WTO ne è una prova), cerca di privatizzare con cautela i settori strategici, cerca di mantenere una sicurezza sociale per le fasce più deboli della popolazione, ed ha sviluppato una capacità di assorbimento e di spesa degli aiuti internazionali notevole.
Il Vietnam è un dragone di carta colorato, sorridente, pacifico che nasconde al suo interno dei muscoli di acciaio, flessibili, leggeri e ostinati a piegarsi di fronte alle difficoltà che l’integrazione nell’economia internazionale presenta. Per i detrattori il Vietnam rimane un paese corrotto, elitista, classista, autoritario, e sconsiderato nelle sue politiche di liberalizzazione. Per gli estimatori, il Vietnam è un paese dinamico, concludente, autonomo, coeso, e tollerante.
Come sempre la verità sta nel mezzo, un mezzo che è difficile identificare se non attraverso un’analisi ed un’esperienza diretta e attenta, un mezzo che come nel simbolo del Tao è un po’ bianco e un po’ nero, ma in cui anche nel bianco c’è un puntino nero e nel nero c’è un puntino bianco. Forse questo può servire a spiegare il mistero del socialismo di mercato, un modello che non è confondibile con quello dell’economia mista e che non è replicabile in altri paesi non asiatici, ma che presenta certamente una sfida non indifferente agli apologeti del libero mercato e del capitalismo neoliberista.
*Andrea Gallina
Coordinatore del GVC in Vietnam
andrea.gallina@gvc-italia.org
Hanoi, 22 marzo 2007