Mi pare che la nuova normativa sulla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche segni un nuovo, grave passo indietro nei rapporti fra stampa e potere. Quando fu introdotto il nuovo codice penale, ricordo che nelle redazioni vennero fatti brevi corsi, da parte principalmente di avvocati, per istruire i cronisti sulla condotta da tenere per non incappare nei rigori della legge e nel rischio di querele trattando di vicende giudiziarie. C’era da capire la nuova figura dell’indagato, c’erano regole sulla possibilità di pubblicare atti dell’inchiesta e sulla facoltà di riassumerne il contenuto, e così via. La salvaguardia del diritto di cronaca era considerato un “bene pubblico” e come tale fu trattato, con risultati tutto sommato dignitosi. E’ un fatto che il punto d’equilibrio sul diritto di cronaca è un’immancabile ‘lotta’ fra la completa trasparenza inseguita dal cronista e la voglia di tenere tutto nascosto tipica dell’imputato. I poteri costituiti, storicamente, si sentono più vicini alle ragioni degli imputati, in quanto vedono nella magistratura e nella stampa dei poteri antagonisti: non a caso si parla di terzo e quarto potere. Le ragioni addotte per limitare il diritto di cronaca sono numerose e variano nel tempo: dalla presunzione d’innocenza alla privacy, dall’interesse di stato… allo scontro di civiltà.
Negli ultimi anni anni i poteri hanno conquistato molto terreno e compiuto tentativi più o meno riusciti in varie direzioni (penso alle norme anti-informazione contenute nella riforma dei codici penali militari progettata dal centrodestra, e la stessa legge sulla privacy, che spesso diventa un motore di autocensura per i media). La norma sulle intercettazioni approvata alla Camera, con le regole ferree che introduce e le pesanti sanzioni previste, rischia d’essere il risultato più importante conseguito in questa lotta impropria contro il diritto di cronaca. Se non ho capito male, si limita di molto – fino alla conclusione delle indagini preliminari – la possibilità di pubblicare gli atti (tutti gli atti, non solo le intercettazioni) presenti nel fascicolo dei pm: non sono un esperto di giudiziaria, ma mi sembra questa la parte più incisiva della controriforma. Poi ci sono una serie di altre regole che vogliono limitare le intercettazioni da parte delle procure, quando è noto che nel paese dei telefonini questo è ormai il principale strumento di lavoro di chi fa le inchieste.
Il pretesto usato per questo giro di vite è la pubblicazione sui giornali di trascrizioni di intercettazioni a tutto campo: a volte di indagati ma anche di non indagati; di parlamentari e loro accoliti (da Consorte-Fassino a Vittorio Emanuele, al dirigente Rai di An del quale non ricordo il nome) e di vallette e attori più o meno conosciuti; su fatti di rilievo penale ma anche su puro gossip e questioni private di questo o quello.
E’ stato facile sostenere, di fronte all’opinione pubblica, che bisogna mettere un limite a tutto questo, ed ecco il progetto Mastella con voto rigorosamente bipartisan (fra parentesi, in questi tempi malati dire che una cosa è bipartisan è diventato quasi una riprova di bontà, mi pare invece che sia quasi sempre un indizio che deve rendere sospettosi). Non si può negare che debba esserci un limite alla pubblicazione degli atti, e che ogni persona ha diritto alla riservatezza e alla tutale della propria dignità (in misura naturalmente variabile in funzione del ruolo pubblico eventualmente ricoperto). Ed è vero che negli ultimi anni il mondo dell’informazione ha progressivamente assottigliato – se non abbattuto – il confine fra informazione buona e informazione morbosa, fra notizie d’interesse pubblico e gossip. In passato, per dire, la vita di privata di un Craxi o di un Occhetto, che pure credo avessero vite familiari e sentimentali piuttosto movimentate, non interessavano la grande stampa d’informazione e semmai erano materia per i giornali di gossip; oggi le gite in barca di un Casini o le ospiti di villa Berlusconi diventano notizie (e vogliamo chiamarle così) da prima pagina.
L’autoregolamentazione invocata dalla Fnsi e dall’Ordine dei giornalisti è sacrosanta, ma la categoria arriva a questo appuntamento con colpevole ritardo, e dopo avere infranto alcuni argini culturali che hanno tenuto fino a poco tempo fa. La sensazione è che si debba andare a una seria rifondazione dell’etica e della deontologia professionale, lavando stavolta i panni sporchi in pubblico. Non basta invocare l’autoregolamentazione se al tempo stesso non si riconosce il ritardo che si è accumulato e non si avvia un’operazione culturale che esca dai circoli ristretti delle sedi sindacali e dai dibattiti chiusi all’interno della categoria. Andrebbe denunciato lo scadimento generale dell’informazione, che ha contagiato ormai le grandi testate nazionali: se non si affronta questa questione, ogni risposta sarà debole e poco credibile.
Nell’immediato, evidentemente, è giusto battersi contro questa legge, mettendo a nudo tutti i retroscena, che hanno molto a che fare con l’eterno desiderio degli uomini di potere di non essere messi sotto processo (né giudiziario, né mediatico, né elettorale): in questo senso mi pare che il punto più grave non sia paradossalmente la questione delle intercettazioni, ma il divieto tout court di pubblicare certi atti (anche in forma parziale o riassunta) fino alla conclusione delle indagini preliminari. Non sarà che il cosidetto scandalo delle intercettazioni sta diventando il cavallo di troia per mettere il bavaglio alla cronaca giudiziaria in quanto tale?
Lorenzo Guadagnucci