Di tanto in tanto alcuni dei soliti opinionisti italiani dogmatico-liberisti utilizzano l’esempio della Danimarca per indicare la possibilità di convivenza fra un’economia di mercato spinta (quella auspicata dal governo di centrodestra a Copenaghen) e la lotta alla povertà. In sostanza, si dice senza rendersi conto del grottesco di tutto ciò, il modello economico-sociale della massima concorrenza, è vero, genera diseguaglianze e povertà. Ma dove si è saputo tagliare altre spese pubbliche, dalle pensioni alla sanità, ci pensa lo stato a salvare la vasta fascia di “derelitti”, cioè a riparare i danni prodotti da un’economia privata sempre e solo oggetto di divinizzazione acritica.
Proprio sulla Danimarca e sull’evoluzione del suo sistema di tutele sociali proponiamo un’intervista al professor Bruno Amoroso, economista che ha condotto ricerche sotto la guida di Federico Caffè sul settore pubblico dell’economia. In Danimarca dal 1971, insegna politica economica ed economia internazionale all’Università di Roskilde, dove dirige il Centro studi Federico Caffè.
[ L’intervista è tratta da Rassegna Sindacale – www.rassegna.it ] A. Al.
Sul sistema di welfare danese, sulla sua storia ed evoluzione e sul significato delle recenti manifestazioni abbiamo rivolto alcune domande a Bruno Amoroso, economista, già professore di Economia internazionale e dello sviluppo all’università danese di Roskilde, attualmente preside dell’Università per il bene comune e della facoltà della mondialità di Milano, nonché collaboratore della consulta giuridica della Cgil.
Rassegna – La crescita economica superiore alla media Ue e il basso tasso di disoccupazione hanno creato negli ultimi anni un surplus notevole in Danimarca. Alla luce di ciò, sono giustificabili le riforme al welfare volute dal governo e anche da una parte dell’opposizione?
Amoroso – Esiste indubbiamente una contraddizione tra l’enfasi che il governo danese mette nel sottolineare i risultati positivi dell’economia del paese e l’accelerazione ai tagli e alle ristrutturazioni in tutti i settori chiave del welfare danese. Lo stesso Rapporto di riforma del welfare presentato dal governo non risolve questa ambiguità di contenuti se non con un richiamo alla necessità di prepararsi ai futuri cambiamenti demografici e alla crescente competizione causata dalla globalizzazione. È proprio su questi punti, infatti, che insiste il Rapporto sul welfare presentato dalla Commissione alternativa composta da sindacalisti ed economisti critici (Jesper Jespersen ad esempio). La riforma del welfare voluta del governo segnala problemi che esisterebbero in prospettiva (15-20 anni), ma dimentica quelli più attuali e urgenti che invece sbiadiscono un po’ il quadro dei successi dovuti alle liberalizzazioni introdotte negli ultimi anni.
Rassegna – Qual è la situazione della disoccupazione in Danimarca?
Amoroso – Spesso si trascura il fatto che il 3,5-4 per cento di disoccupazione delle statistiche sale facilmente al 7 se si includono i disoccupati finanziati mediante “redditi di trasferimento”, perché iscritti a corsi di riqualificazione o interessati ad altre forme di uscita anticipata del mercato del lavoro. In Danimarca, paese che ha una popolazione di poco più di 5 milioni, oltre 900.000 persone vivono di redditi di trasferimento (reddito sociale), il che equivarrebbe a un cifra di circa 10 milioni di persone nel caso dell’Italia.
Rassegna – La manifestazione di maggio, inusuale per un paese come la Danimarca, può significare che una parte importante del paese è nettamente contro la direzione che la maggioranza della classe dirigente politica ha deciso di intraprendere?
Amoroso – In Danimarca si sta manifestando un contrasto crescente tra la direzione imposta al paese da una borghesia transnazionale di nuova formazione e la cultura e gli interessi dei cittadini radicati territorialmente ed eticamente nel paese. Le origini di questo processo risalgono agli anni 70, quando la globalizzazione si affacciò sulla scena europea e internazionale. I sindacati danesi e svedesi furono i primi a osservare il cambiamento e a segnalare che la crescente finanziarizzazione delle economie avrebbe dato un potere enorme, sia economico sia di ricatto, ai grandi gruppi finanziari transnazionali. Non è un caso che le proposte di “socializzare il capitale” per riprendere il controllo operaio sugli investimenti (la cosiddetta democrazia economica) vennero da questi paesi. Questa “provocazione” dei sindacati portò alla rottura del patto sociale da parte dei partiti borghesi, i quali annullarono l’impegno che affidava alle socialdemocrazie la gestione dello Stato,e lanciarono programmi contro il welfare e contro il sistema sociale fondato sulla solidarietà. La borghesia transnazionale e finanziaria si è mossa da allora in questo solco, utilizzando come leva i processi di integrazione europea e di cooperazione internazionale (anche militari). Questo ha portato a un atteggiamento negativo diffuso nei confronti dell’Unione europea (vedi la bocciatura al referendum per l’adozione dell’euro), e ha trasformato una tradizione di collaborazione internazionale e di solidarietà tra i popoli in un impegno militare ed economico funzionali alla globalizzazione. A loro volta i partiti e i sindacati hanno esitato a reagire a queste sfide, nella speranza che questi indirizzi mutassero in breve tempo. Ora iniziano le reazioni popolari, alle quali, si spera, seguirà un risveglio politico anche dei partiti e dei sindacati.
Rassegna Spesso nel dibattito sulla flexicurity si fa riferimento alla Danimarca quale modello funzionante ed efficace. Qual è il ruolo della flexicurity nelle economie europee e la sua relazione con lo Stato sociale?
Amoroso – La flexicurity non è una soluzione per far fronte ai pericoli della globalizzazione ma lo strumento mediante il quale la globalizzazione rimuove nelle varie economie nazionali gli ostacoli al suo pieno dominio finanziario ed economico. Tra questi ostacoli vi sono i principi di solidarietà che sono alla base del Patto sociale dei sistemi di welfare, come in Danimarca. La flexicurity è l’applicazione al mercato del lavoro del principio secondo il quale il workfare deve abolire il welfare. Quest’ultimo è ispirato al principio per cui i cittadini hanno diritto a un reddito e alla protezione sociale in genere (istruzione, sanità, tempo libero, cultura, servizi essenziali, ecc.). Il primo reintroduce il principio di “chi non lavora non mangia”, questa volta applicato non agli speculatori finanziari e di altro tipo, come era pensato nell’etica socialista, ma ai lavoratori e cittadini in generale. D’altronde i concetti e le politiche hanno una storia. Workfare e flexicurity nascono negli Stati Uniti con la globalizzazione, vengono importati in Olanda e in Europa da correnti liberali e conservatrici per indebolire i sindacati e i lavoratori. Da lì sono state di recente riesportate in altri paesi come l’Italia e la Danimarca.
Rassegna – Lei è d’accordo con chi ritiene ormai irreversibile la crisi del modello di welfare scandinavo?
Amoroso – Queste manifestazioni segnano di certo la fine di quel Patto sociale che nel secolo scorso ha dato vita al welfare scandinavo. Ma indicano anche un possibile rilancio del modello scandinavo di solidarietà. Va preso nota del fatto che la globalizzazione ha introdotto altre forme di divisione economica, politica e sociale che impediscono il funzionamento del modello di welfare nelle forme adottate fino agli anni 80. Il progetto di società equa ed efficiente alla quale si ispirava il modello scandinavo, basato soprattutto su obiettivi di crescita materiale, non può oggi essere riproposto negli stessi termini alla luce dei danni irreparabili che la globalizzazione capitalistica ha apportato all’ambiente, alla coesione sociale, alla cultura della solidarietà. Per questo la ricerca di un nuovo progetto sociale, in Danimarca come altrove, deve mirare a riscrivere un progetto di società ispirato al bene comune, che superi i limiti dello statalismo e riconduca a unità i principi e le funzioni che regolano la vita economica, politica, sociale e culturale dei paesi e delle comunità che la globalizzazione ha frammentato.
[ www.rassegna.it – Rassegna sindacale, giugno 2006 ]