[ dal quotidiano Liberazione – www.liberazione.it ]
Quello che segue è l’ultimo articolo, ancora inedito, inviatoci da Fabrizio Giovenale. Lo possiamo davvero considerare come il suo testamento politico.
Noi preoccupati da sempre del disinteresse della stampa per le questioni ambientali non ci possiamo più lamentare. C’è stato il “Living Planet Report 2006” del Wwf, poi, prima che quello finisse nel dimenticatoio, è uscito l’Observer con il Rapporto di Sir Nicholas Stern commissionato da Blair, e subito appresso Nairobi… La prima volta, che io ricordi, che l’ambiente è stato per più di una settimana di seguito su tutti i giornali. Su Liberazione si sono seguiti gli editoriali di Piero Sansonetti, Ritanna Armeni e Carla Ravaioli mentre Sabina Morandi forniva il suo quotidiano contributo di informazioni preziose, e poi le corrispondenze sul vertice in Africa (ennesimo fallimento, tra l’altro, con l’ulteriore rinvio di qualunque decisione importante)… In tutti i casi: a me questa sembrava una buona occasione per far fare un passo in avanti al modo di ragionare delle sinistre al riguardo. Provo a spiegarmi. Carla Ravaioli notava che da buon economista Nicholas Stern, per esser certo di richiamare l’attenzione sul suo Rapporto, ha provato a tradurne i risultati in quattrini.
Al di là dei guasti climatici, degli scioglimenti di ghiacci, delle desertificazioni avanzanti, dei 200 milioni di profughi scacciati da terre sempre più inaridite, ha sparato la cifra di 3,68 trilioni di sterline (5,5 trilioni di euro, il 20% del Pil mondiale) come prezzo per il mancato intervento sul mutamento climatico. E’ stata quella la cifra strombazzata da tutti i giornali. Evidentemente lo ha fatto perché è consapevole che quello dei soldi è il solo linguaggio comune a tutte le sfere di potere del mondo.
Approccio al problema che comporta il rischio però (è questa la critica di Ravaioli) che anche le soluzioni vengano ricercate soltanto attraverso strumenti economici, oltreché tecnologici: rifiutando ancora una volta cioè di imboccare la strada più giusta, che è quella di sgombrare le nostre menti dai criteri monetari come unico metro per valutare le cose e deciderci a perseguire le finalità – dichiaratamente antieconomiciste – della maggior possibile riduzione degli sfruttamenti di risorse terrestri nei cicli correnti di produzione-econsumo. Vorrei provare adesso a riprendere il filo del discorso da un altro capo messo in particolare evidenza da Ritanna Armeni.
Quello della dimostrazione data da Stern dell’impossibilità materiale per un solo paese, per importante che sia, di incidere in misura apprezzabile N sulla soluzione di questi problemi fintantoché gli altri seguitano a non darsene per intesi. La conclusione che ne discende – “o tutti insieme o nessuno” – a me sembra peggio che catastrofica. Significa in pratica un invito a tutti a non far niente di niente, perché tanto non servirebbe… Probabilmente è per questo che Stern mette avanti la questione dei soldi: perché ritiene meno difficile metter d’accordo le grandi potenze economiche che i singoli Stati. Cadendo però nell’altro rischio che Ravaioli denuncia: che dall’interesse delle multinazionali, che vedono nella questione ambientale soltanto una nuova occasione di guadagni e di affari, non possa venire in sostanza niente di buono. Anche perché, aggiungerei, non è affatto detto che sia più facile metter d’accordo i colossi economici che le Nazioni.
Ritanna Armeni, nel ricordare le conclusioni di Stern sulla necessità di «un accordo globale di tutti i paesi del mondo per un intervento immediato e pianificato », mette in evidenza che questo significa riconoscere a tutto l’ambiente fisico planetario il carattere di “bene comune”.
Un’idea di sinistra, d’accordo, positiva teoricamente, ma che non mi sembra possa arrivare a nascondere lo sconforto profondo che ci deriva dall’impossibilità materiale di fare praticamente alcunché per levarci davvero dai guai. La convinzione che ormai “non ci resta che piangere”. Sta di fatto che il genere umano non s’è mai trovato di fronte a una tragedia futura-prossima di questa portata. Trilioni di sterline a parte: si tratta, né più né meno, della sopravvivenza per popoli interi.
Sappiamo infatti che c’è già chi pensa a salvare sé stesso a spese della distruzione degli altri: c’era anche questa tra le motivazioni dei neocons statunitensi nel loro tentativo (fortunatamente fallito, come stiamo vedendo) di procedere a suon di bombe alla conquista del mondo. Già nel 1970 il sociologo Usa Garret Hardin scriveva: «Se non ce n’è per tutti meglio a noi soli, e che crepino gli altri»)… Mentre l’idea solidaristico-socialista del pari diritto di tutti alla vita si scontra dovunque con difficoltà continuamente crescenti. Già, perché qui sta il busillis. Giorgio Ruffolo parlava su La Repubblicadi «gigantesco problema di ristrutturazione sociale, riorganizzazione politica e ripensamento etico della società umana». E in quell’editoriale del 25/10 Sansonetti metteva in discussione la natura stessa del capitalismo, «che porta nel suo dna un enorme definitivo difetto: la dittatura della crescita dei consumi e quindi il rischio di rovina del pianeta».
Vedete dov’è che voglio andare a parare? Da quel che ci dice Ritanna Armeni sull’ambiente fisico “bene comune” e dalle parole di Sansonetti sulla messa in crisi del capitalismo, mettendo insieme due-più-due mi sembra risulti evidente che, se c’è ancora una qualche speranza di riportare a vivibilità questa Terra (niente è recuperabile al cento per cento, d’accordo, ma niente è mai nemmeno completamente perduto), sta oggi nel realizzare una nuova forma di comunismo che basi la ricerca di equità nella ripartizione dei beni su motivazioni profondamente diverse da quelle passate. Un comunismo lontano, cioè, dal contesto ipotizzato da Marx di ricchezza complessiva in aumento, e fondato invece sulla realtà dello squilibrio crescente fra popolazione mondiale e risorse, e quindi sull’assioma lapalissiano che se le risorse scarseggiano la sola cosa ragionevole e decente da fare è metterle in comune e ripartirle fra tutti il più equamente possibile. Come dire che in un momento tanto drammatico di situazione di bilico per il futuro del genere umano, la sola speranza di salvezza è “spostata a sinistra”.
Dipenderà da noialtri – così frastornati ed incerti finora sul nostro destino – sgombrarci la testa da qualunque residuo di fisime economiciste mutuate dai nostri avversari, abbracciare convinti l’idea della messa in comune del bene unitario rappresentato dalla biosfera terrestre, trasmettere ad altri la nostra convinzione, batterci senza sosta e senza quartiere contro il mostruoso aggregato degli interessi capitalisti ostinati a non voler vedere quel che sta cambiando sotto i loro stessi occhi, ristabilire i valori della solidarietà interumana, unire le forze per la ricostituzione ancora possibile della vivibilità della Terra…
Che dite? Sto vaneggiando? Può darsi. Ma se si riflette sulle difficoltà che abbiamo incontrato finora nel definire la nostra idea di rifondazione di un comunismo del XXI° secolo, se poniamo mente a quanto si sta rivelando problematico individuare una linea di pensiero e di azione per la Sinistra Europea, non è difficile accorgerci che ci si sta offrendo – se pure in extremis e quando già quasitutto sembra perduto – una prospettiva di validità incontestabile. E che noi soli – attenzione – possiamo portare avanti. Un compito storico per le sinistre come non l’hanno mai avuto, che ci piomba addosso già quasi-fuori dal tempo massimo. Il che lo rende – ci piaccia o meno – ancor più impegnativo.
Chiaro che questo è un discorso che va approfondito e verificato portandolo avanti. Troppe cose ci sarebbero ancora da dire. Limitiamoci a una. Che per tentar di risolvere la questione ambientale le “terapie morbide” non bastano più. Beninteso: sperimentare energie alternative, razionalizzare edilizia e trasporti, riciclare i rifiuti e quant’altro sono cose che vanno fatte. È quel che hanno cominciato a capire (Ravaioli ricorda) perfino i potentati economici pronti a metter le mani sul nuovo business-ambiente. Ma non è questo (quantomeno non questo soltanto) che serve. È produrre di meno, è consumare di meno, è ritornare per certi aspetti a condizioni pre-industriali di parsimonia nei comportamenti. E’ adattarci definitivamente all’idea (ricordate la polemica dell’anno scorso su queste pagine?) di sostituire un sistema basato sui consumi crescenti con un sistema industrial- produttivo “in decrescita”.
In aperto contrasto con gli interessi economici dominanti nel mondo e con la mentalità che c’è dietro. È dedicare d’ora in avanti gran parte delle forze lavorative mondiali al risanamento ambientale: rimboschimenti, risanamenti idrogeologici, ripuliture e quant’altro. In altre parole: è rifiutare una volta per tutte e per sempre di lasciarci guidare da criteri di competitività e concorrenza. E’ mettere realmente alla base di tutte le nostre scelte politiche la solidarietà fra gli esseri umani. È batterci contro la rete oppressiva e violenta dei potentati economici che detengono i massimi poteri nel mondo. Cose da far tremare soltanto a pensarle, d’accordo.
Ma che rappresentano per la sinistra (di questo faremo bene a convincerci, per quanto difficile ed ostico sia) la più grande occasione storica che le si sia mai presentata per assumere il ruolo protagonista in una travagliatissima fase della vicenda umana.
Senza cadere in eccessi di catastrofismo né di retorica: a me sembra che ci si prospetti – se saremo capaci di stare all’altezza dei problemi reali – la possibilità di dedicarci a una missione certamente drammatica, ma forse decisiva per la prosecuzione dell’avventura umana su questo pianeta.
[ dal quotidiano Liberazione www.liberazione.it del 27 dicembre 2006 ]