«Outlet, centro commerciale, villetta con nano da giardino, McDonald’s…». La compagnia milanese Alma Rosè [Almarose.it] con lo spettacolo «Mapu Terra» comincia dalla Patagonia verde e violata, per finire da noi, dentro la nevrosi di una società che nel cemento ha imbrigliato anche le relazioni umane. Per l’occasione alla compagnia, si è aggregato il giornalista di Radio Popolare Angelo Miotto, che porta il contributo dell’inchiesta sulla vicenda di Atilio e Rosa Curinanco, una coppia di etnia mapuche che nel 2003 decide di lasciare la fabbrica a Buenos Aires e tornare alla terra di origine, in Patagonia. Qui, però, i due finiscono presto nel mirino di una multinazionale italiana, la Benetton, che nel 1991 aveva comprato circa un milione di ettari patagonici, una quantità immensa di territorio, compreso il fazzoletto che le autorità locali avevano concesso a Rosa e Atilio classificandolo come riserva mapuche. Così i due indios vengono sgomberati, ma non si arrendono e cominciano una battaglia legale nel nome del diritto del loro popolo a custodire la terra svenduta dal governo.
«Abbiamo voluto mettere in luce – spiega la regista Elena Lolli – la contrapposizione di due visioni del mondo. Da una parte, il diritto naturale di un popolo di continuare a vivere nella terra che abita da secoli; dall’altra, il codice occidentale fondato sulla proprietà privata. Ma cerchiamo di far riflettere anche sulla responsabilità del governo argentino, che ha dato queste terre al miglior offerente, senza porre condizioni a tutela delle genti locali. In Patagonia un’impresa si può sostituire completamente allo Stato comprando un’intera regione».
Da qui il parallelismo con la nostra terra, i nostri governi, i nostri popoli: il destino di un territorio declinato secondo la grammatica dell’impresa e del profitto; il ruolo di una cittadinanza vittima delle distrazioni e delle sottrazioni di sovranità, per lasciare mano libera ai manovratori, ai padroni del vapore.
Il simbolismo del reale e la potenza evocativa di Annabella Di Costanzo e Manuel Ferreira mettono a nudo, con tragica ilarità, alcuni tratti evidenti del processo che ha sconvolto, disumanizzandolo, il paesaggio e le vite di chi lo abita. Se due mapuche coraggiosi hanno difeso la terra per continuare a viverci e lasciarla intatta ai loro figli, noi che cosa facciamo per i nostri luoghi percorsi da devastazioni e contaminazioni?
Si potrebbe rispondere che siamo tutti o quasi conniventi, spaesati e arresi a una mutazione sociale e paesaggistica apparentemente inarrestabile, sulla quale nessuno ci ha interpellati ma che in parte abbiamo interiorizzato. La narrazione dei reduci urbani della Patagonia si fa emblematica con l’avventura milanese per andare al lavoro in bicicletta, nei fumi del traffico, finita con la centralinista che fissa il poveretto sopravvissuto che arriva in ufficio semisoffocato: «Tutto bene?». «Sì, ho solo… respirato», è la disarmante risposta.
Il teatro, come uno specchio, ci restituisce immagini crude che abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni ma che tendiamo a non cogliere nella loro drammatica profondità: forse ne siamo assuefatti. Fenomeni su larga scala, quali il crescente consumo di territorio per strade, attività economiche o nuove abitazioni [faccende per lo più da speculatori, in un Paese con saldo demografico zero]; l’invasione generalizzata del traffico, pesante e non; l’omologazione dei consumi e la mortificazione delle piccole produzioni agricole e artigiane locali.
Considerata l’insofferenza dei decisori pubblici per chi denuncia dal basso questa rapida deriva [«guastatori»], ci si può chiedere se il modello vorace perseguito da governi e imprese abbia realmente ricadute positive sulla generalità dei cittadini: spesso viene giustificato con il perseguimento del benessere diffuso [lo «sviluppo»]. In realtà, molti indicatori ci dicono che non è così: precarietà occupazionale, calo del potere d’acquisto dei salari, esplosione di bisogni indotti che canalizzano la spesa famigliare, paralisi della mobilità sociale dal basso verso l’alto, dati su morbilità e mortalità da inquinamento, impoverimento di ogni interazione sociale che non sia incline alle logiche del denaro e dell’impresa.
Dalla dimensione territoriale lo zoom drammaturgico si stringe nella proiezione di questo infinito cantiere mercantile dentro il microcosmo soggettivo. L’animatore-coniglio precario che distribuisce patatine promozionali al centro commerciale ci dona, in un monologo esilarante, l’idea della distrazione grottesca di un’umanità che si accalca per un sacchetto di chips: «Sono venuta fin qui, non me ne vado senza qualcosa in mano».
Vite compresse in una corsa a ostacoli, nel solco della competizione e dalla fatica a sbarcare il lunario per i più, mentre pochi accumulano ricchezza e serenità esesistenziale sulle spalle di molti.
Sullo sfondo del racconto prende forma, sempre meno evanescente, l’idea di una mutazione antropologica indotta dalle scelte di politica economica e dell’urbanistica che le asseconda. Dalla crisi del dialogo che si consuma in un chiassoso e vacuo aperitivo serale all’uso del corpo, negato nell’attività quotidiana e costretto a pagamento nelle palestre: «La sera, siccome il lavoro mi stressa, faccio yoga in un centro bellissimo e costosissimo. Poi, devo lavorare tanto per pagarmi il corso di yoga…».
In un travolgente monologo Annabella Di Costanzo ci dà pure la misura di una delle angosce metropolitane [e non solo] più diffuse: la casa e la follia di affitti da capogiro per appartamenti sempre più piccoli. La dimora diventa ansia esistenziale. Anche qui la forza della messa in scena evoca scenari veri, come l’espulsione dalle città, la trasformazione di paesi e sobborghi in dormitori per pendolari, mal serviti dai trasporti collettivi [gli stipendi se ne vanno per l’auto], con piazze vuote e rassegnate al più vicino shopping center. «La signora ricaverà tre monolocali da un appartamento e ci aumenta il canone, però salverà le piccole rondini trovate dagli operai sotto una trave. Come vorrei essere una rondine e volarmene via…».