Sarà più difficile ora accampare scuse, nascondendosi dietro i comodi paraventi del rispetto degli impegni europei o della minaccia dei mercati. Sarà più difficile perché in appena tre giorni oltre cinquanta economisti – tra i quali firme autorevolissime, come quelle di Pierangelo Garegnani e Augusto Graziani – hanno aderito entusiasti al nostro appello contro l’abbattimento del debito pubblico e a favore della sua sola stabilizzazione. È questa, secondo i firmatari, la svolta necessaria per la concreta attuazione di un indirizzo politico credibilmente orientato allo sviluppo e all’equità, nel pieno rispetto dei vincoli di sostenibilità delle finanze pubbliche. L’appello degli economisti rappresenta la tappa più recente di una prolungata opera di decostruzione di alcuni tipici luoghi comuni dell’economia volgare dominante. Per anni l’imperativo dell’abbattimento del debito pubblico è stato considerato l’imprescindibile obiettivo della politica economica. Gli smantellamenti del welfare che inevitabilmente scaturivano da questa linea di indirizzo venivano considerati alla stregua di sacrifici indispensabili per risanare un bilancio pubblico che si definiva “disastrato”. Alla sinistra e alle opposizioni sociali veniva solo concesso di invocare un’equa redistribuzione delle strette fiscali, ma non gli si concedeva mai di segnalare l’esistenza di un’alternativa razionale a queste politiche di lacrime e sangue. Il rischio che stiamo correndo oggi è del tutto analogo. Anche a sinistra si parla genericamente di “risanamento”, senza avere di fatto la più pallida idea di cosa realmente si intenda per sostenibilità del bilancio pubblico. Anche dalle nostre parti sentiamo ripetere gli infondati ritornelli dell’ortodossia, dal “debito che ricade sulle spalle dei nostri figli” allo spauracchio delle agenzie di “rating”. Sembra non sussistere più alcuna consapevolezza del dato tangibile che il vero conflitto non ha nulla a che vedere col debito pubblico, che esso si situa tra le classi molto più che tra le generazioni e che i voti delle agenzie hanno non solo conseguenze ma anche e soprattutto cause politiche. Il risultato di questa mancata coscienza è che ci si affanna a chiedere ritocchi, sforbiciate, aggiusti tra le varie poste di bilancio, ma non ci si sente forti abbastanza da rimarcare l’assoluta praticabilità di un sentiero altro, di una diversa lettura e soluzione dei problemi di fronte ai quali ci troviamo. È per tentare almeno di arginare questo cedimento, culturale oltre che politico, che abbiamo deciso di agire. Negli ultimi anni ci siamo sforzati di recuperare dalla torre d’avorio dell’accademia il gigantesco bagaglio conoscitivo dell’economia critica, al fine di evidenziare l’assoluta infondatezza delle prescrizioni dell’economia volgare più diffusamente propinate dai palazzi del potere. Dopo un lungo black out comunicativo, il convegno “Rive Gauche” (i cui atti sono stati recentemente pubblicati da Sergio Cesaratto e Riccardo Realfonzo per la Manifestolibri) ci ha permesso di instaurare un rinnovato contatto tra gli economisti critici e il mondo della sinistra politica e sindacale. Da quel momento l’attenzione nei confronti della proposta di stabilizzare anziché abbattere il debito si è rapidamente diffusa: dai movimenti, ai sindacati, ai gruppi parlamentari, fino a varcare la soglia dell’esecutivo con l’esplicita adesione di alcuni esponenti dell’attuale governo. L’appello degli economisti giunge a sostegno di questa linea di indirizzo in via di costruzione. I firmatari segnalano che dal Dpef emerge una pesante manovra di finanza pubblica, volta a realizzare un rapido abbattimento del rapporto tra debito pubblico e Pil. Il perseguimento di un simile obiettivo richiederebbe l’accumulo di avanzi primari annuali estremamente ampi, vale a dire tagli significativi alla spesa pubblica, incrementi del prelievo fiscale non reimpiegabili nell’economia e ulteriori dismissioni e privatizzazioni. I firmatari sottolineano che questa strada non è per nulla obbligata. Non sussistono, infatti, né vincoli istituzionali né imperativi tecnico-economici che impongano un abbattimento del debito. L’unificazione monetaria europea e la presenza di un mercato finanziario integrato hanno infatti ridimensionato fortemente i differenziali tra i tassi d’interesse dei paesi membri, e non sussiste alcun motivo tecnicamente plausibile per attendersi incrementi significativi e duraturi di tali differenziali. Qualsiasi riferimento ad eventuali reazioni avverse da parte dei mercati andrebbe pertanto seriamente argomentato sul piano tecnico-scientifico anziché essere agitato come uno spauracchio, come il più delle volte anche a sinistra accade. L’appello degli economisti segnala inoltre che non esiste un’unica definizione plausibile di sostenibilità delle finanze pubbliche: per ogni data differenza tra i tassi d’interesse e i tassi di crescita del reddito, esistono molteplici combinazioni possibili del deficit e del debito, tutte egualmente sostenibili sul piano della stretta logica economica. Questo significa che i vincoli del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil, sanciti dal Trattato dell’Unione, non godono in quanto tali di alcuna legittimazione scientifica. Nulla impedisce, pertanto, che essi vengano sottoposti ad una nuova e diversa valutazione in sede politica, nazionale ed europea. E a chi dubitasse della praticabilità di questa via i firmatari ricordano che il Trattato dell’Unione non prevede sanzioni rispetto al vincolo del debito pubblico al 60%, e che le sanzioni previste per i paesi il cui deficit superasse il limite del 3% non sono finora mai state applicate, nonostante le significative e ripetute violazioni. I firmatari dell’appello propongono dunque la seguente alternativa di politica economica: che il governo fissi come obiettivo generale di legislatura non l’abbattimento ma la sola stabilizzazione del debito rispetto al Pil, determinando conseguentemente il valore del rapporto tra deficit e Pil. Questa soluzione consentirebbe di liberare risorse pubbliche aggiuntive da 6 a 20 miliardi di euro all’anno (a seconda delle diverse previsioni su crescita e interessi) già nel 2007, e fino a 55 miliardi per gli anni successivi. La proposta merita dunque un serissimo approfondimento. Rifondazione comunista e gli altri partiti della sinistra dovrebbero abbandonare ogni residuo indugio e sostenere apertamente l’ipotesi di stabilizzazione del debito. Dati gli attuali rapporti di forza, nulla garantisce il successo dell’iniziativa. Ma per ottenere un minimo di risultati le battaglie occorre almeno avviarle: perdere per ragioni strettamente politiche, infatti, sarebbe senz’altro meglio che far finta di nulla evocando le bacchettate della Commissione o l’improbabile spettro della reazione dei mercati.
* Questo articolo è stato pubblicato su liberazione del 16 luglio 2006 [ www.liberazione.it ].