Nonluoghi Archivio Belluno, il 25 aprile ricordando l’anarchico Sbardellotto

Belluno, il 25 aprile ricordando l’anarchico Sbardellotto

Per il prossimo 25 aprile, sessantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, il circolo anarchico “A. Sbardellotto” di Belluno, in collaborazione con il Coordinamento anarchico veneto, promuove una giornata antifascista a Mel (Belluno), paese natale di Sbardellotto, l’anarchico condannato a morte e fucilato nel 1932 perché aveva l’intenzione di uccidere Mussolini. L’iniziativa si svolgerà nell’arco dell’intera giornata, nella sala comunale, e prevede un intervento a carattere rievocativo della figura di Sbardellotto, al fine di sollecitare la deposizione di una targa in suo ricordo nella cittadina di Mel, la presentazione del libro “La Resistenza sconosciuta”, la visione del video-documentario “Gli anarchici contro il fascismo” e uno spettacolo musicale con la presentazione di una canzone inedita dedicata proprio a Sbardellotto, nonché una bicchierata collettiva.
Inoltre, durante la giornata, sarà attivo un banchetto con materiali (libri, opuscoli, riviste eccetera) sia sull’antifascismo che sull’anarchismo.
Per informazioni: Circolo “Sbardellotto” via F. Gazzetti,7 – 32100 Belluno, oppure coord_senzapatria@yahoo.it.

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Sulla vicenda di Sbardellotto segnaliamo il volume di Giuseppe Galzerano «Angelo Sbardellotto – Vita, processo e morte dell’ emigrante anarchico fucilato per “l’intenzione” di uccidere Mussolini» (Editore Galzerano, pagine 502, euro 25, telefono 0974.62028) e proponiamo qui sotto un articolo di Francesco Berti tratto dal numero 268 (dicembre 2000 – gennaio 2001) di A Rivista Anarchica.

Per amore della libertà
di Francesco Berti

Storia del mancato attentato di Angelo Sbardellotto, l’anarchico veneto che dal Belgio scese tre volte in Italia con l’intenzione di uccidere Benito Mussolini
Negli anni venti e trenta del Novecento numerosi anarchici italiani in esilio, individualmente o collettivamente, concepirono piani per attentare alla vita di Benito Mussolini, nella convinzione che la sua uccisione potesse produrre la crisi del regime fascista, dato lo stretto legame esistente tra il fascismo e la personalità carismatica del suo capo. Si trattava da un lato di scelte che implicavano una dose di coraggio inusitato in chi si assumeva personalmente il compito di sopprimere il tiranno, dal momento che tali missioni erano pressoché suicide, dall’altro di azioni molto rischiose sotto il profilo politico: mancare il bersaglio poteva significare – come avvenne poi effettivamente – contribuire inintenzionalmente ad accrescere il consenso per lo Stato totalitario.
Dei progetti anarchici di sopprimere Mussolini solamente uno fu materialmente portato a termine, quello di Gino Lucetti, sebbene la bomba che il libertario carrarino scagliò contro la macchina del duce l’11 settembre 1926 nei pressi di Porta Pia a Roma esplose quando l’auto si era già portata a distanza di sicurezza, non provocando a Mussolini se non un bello spavento. In altri due casi gli attentatori, Michele Schirru e Angelo Pellegrino Sbardellotto, furono arrestati prima di compiere l’attentato: il Tribunale Speciale, servendosi delle leggi eccezionali introdotte dallo Stato fascista nel novembre del 1926 dopo “l’attentato Zamboni” (1), che reintroducevano in Italia la pena di morte abrogata nel 1888, estendendola agli attentatori contro il capo del governo, e che equiparavano l’intenzione di commettere il reato al reato compiuto, li condannarono a morte mediante fucilazione.
Il caso di Sbardellotto è, dei tre sopra citati, quello meno indagato e più oscuro nel suo retroterra sotto il profilo della ricostruzione storica, sebbene anche per gli altri due rimangano ancor oggi dettagli non chiariti. Enzo Magrì ha recentemente licenziato alle stampe un libro nel quale sono ricostruite le vicende di quattro tra i primi cinque individui, su un totale di 32, fatti fucilare dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato (Enzo Magrì, I fucilati di Mussolini, Baldini & Castoldi, Milano 2000, pp. 305, £ 32.000): Michele della Maggiora, Domenico Bovone – che fu fucilato la stessa mattina di Sbardellotto –, Angelo Sbardellotto e Ugo Traviglia. L’autore ha evitato di prendere in considerazione Michele Schirru, del cui caso si era occupato, con esiti in verità non del tutto felici, il giornalista Giuseppe Fiori alcuni anni fa (Giuseppe Fiori, L’anarchico Schirru condannato a morte per l’intenzione di uccidere Mussolini, Mondadori, Milano 1983). Il merito precipuo del lavoro di Magrì consiste indubbiamente nell’aver riportato alla luce alcuni importanti episodi della lotta antifascista di cui ormai quasi nessuno si era più occupato negli ultimi decenni. Occorre però subito precisare che, almeno per quanto riguarda la parte dedicata a Sbardellotto (pp. 59-106), la ricerca, pur arricchendo di particolari e di dettagli poco conosciuti la versione già nota dei fatti e delle ipotesi, non sembra chiarire i punti oscuri di questa vicenda. La ricostruzione di Magrì, insomma, pare più che altro un aggiornamento di quelle di Cesare Rossi e Giovanni Artieri, gli autori che nei primi anni dopo la fine della guerra si erano soffermati più di altri sul caso Sbardellotto rifacendosi ai medesimi documenti di polizia consultati recentemente dal giornalista (2).
Nonostante il lavoro di Magrì sia discutibile anche sotto altri aspetti, appare semplicistica, per esempio, la ricostruzione psicologica di Sbardellotto, bollato come fanatico e invasato, e quantomeno opinabile la qualifica di terrorista che l’autore attribuisce all’anarchico veneto – la parte debole di questa come delle precedenti versioni del caso risiede nel fatto che, ancor più di Rossi e Artieri, Magrì basa molta parte della sua ricerca, considerandolo un documento storico attendibile, sulla confessione scritta da Sbardellotto nel carcere romano di Regina Coeli due giorni dopo l’arresto: in essa l’anarchico indicò al giudice istruttore, al quale inviò il suo memoriale, i complici del progetto, fornendo una minuziosa ricostruzione della sua vicenda nei mesi precedenti l’arresto. Sia chiaro: è possibile, anzi probabile, che questo memoriale sia veritiero; tuttavia, esso è suffragato da elementi troppo scarsi per poter attribuire un grado di certezza quasi assoluta, come vedremo più avanti, a tutte le cose raccontate dall’arrestato. Una storia del mancato attentato di Angelo Sbardellotto deve distinguere a mio avviso i fatti certi da quelli probabili, e questi ultimi dalle congetture o dalle ipotesi, più o meno verosimili.

I fatti certi

Alle ore 15.30 del 4 giugno 1932 a Roma, nei pressi di Piazza Venezia, davanti al bar Mondiale, un individuo venne fermato per accertamenti dall’agente di polizia Paolo Ciancolini, affiancato subito dopo dal collega Anselmo Solfanelli. Il passaporto che il fermato consegnò loro era intestato ad Angelo Galvini, cittadinanza elvetica, residente a Bellinzona, di professione commerciante. Poiché l’individuo in questione risultò privo del documento di soggiorno, venne portato dai militi nel vicino Palazzo Buonaparte dove fu sottoposto ad una perquisizione, nella quale gli furono trovate nascoste una pistola (Mab 6.35) e due bombe: una fiaschetta d’acciaio con miccia contenente 80 grammi di cheddite, con un raggio d’azione di cinquanta metri, e un tubo di ferro piegato ad arco, anch’esso con miccia, contenente 400 grammi di dinamite, con un raggio d’azione di cento metri. Nelle tasche gli vennero inoltre trovate 385 lire, 100 marchi e una scatola di fiammiferi svedesi. Smascherato, l’individuo dichiarò le sue vere generalità ed intenzioni: si chiamava Angelo Pellegrino Sbardellotto, era italiano ed era giunto in Italia con l’intenzione di uccidere Mussolini. Tradotto immediatamente in questura, fu interrogato; due giorni più tardi scrisse il memoriale già ricordato, nel quale accusava come suoi complici: Vittorio Cantarelli, anarchico italiano residente a Bruxelles, al quale per primo avrebbe parlato dei suoi propositi tirannicidi e che avrebbe fatto da tramite per i successivi contatti; Emidio Recchioni, anarchico italiano residente a Londra – individuo che a Sbardellotto sarebbe stato presentato sotto lo pseudonimo di “Nemo” e il cui riconoscimento sarebbe avvenuto durante l’interrogatorio tramite foto -, il quale gli avrebbe dato i soldi necessari alle spese di viaggio e al suo mantenimento nei mesi precedenti l’arresto; un altro individuo di cui non conosceva il nome – individuato anch’egli più tardi tramite foto in Alberto Tarchiani, uno dei responsabili del movimento Giustizia e Libertà -, il quale lo avrebbe rifornito del passaporto falso e, per così dire, del nècessaire da viaggio.
Angelo Sbardellotto era già noto alla polizia fascista, e anche questo è un fatto certo. Quintogenito di undici figli, era nato il 1 agosto 1907 a Villa di Villa, frazione di Mel (Belluno), piccolo paese costruito su una collina posta sulla riva sinistra del Piave, tra Feltre e Belluno. Nei primi mesi del 1924, ancora minorenne, aveva seguito nell’emigrazione il padre, Luigi: prima in Francia, poi in Lussemburgo, infine in Belgio, lavorando come minatore e come operaio meccanico. È questo certamente il periodo in cui il suo antifascismo maturò nel senso di una entusiastica adesione all’ideale anarchico. Nel 1928 la madre, con l’ausilio della maestra, gli scrisse per convincerlo a tornare in Italia, dato che era arrivata la cartolina per la chiamata alle armi. Angelo rispose con una lettera assai polemica nei confronti dell’esercito e del fascismo, dichiarando la sua fede anarchica e affermando di volere sottrarsi alla coercizione militare. La madre, Giovanna, cattolica osservante e di mentalità tradizionalista, trasalì quando la maestra le lesse la risposta del figlio, e chiese consiglio al parroco del paese. Uno di questi due – il parroco o la maestra – pensò bene di segnalare alle autorità il contenuto della lettera: così si ricava da una informativa del 1929 spedita a Roma al casellario politico centrale dal prefetto di Belluno. Fu allora che Sbardellotto venne iscritto nel registro dei renitenti alla leva e nella Rubrica di Frontiera, schedato come anarchico (3), segnalato tra i 270 antifascisti italiani più pericolosi del Belgio e sottoposto a sorveglianza a Seraing, in provincia di Liegi (Belgio), dove risiedeva (in una pensione sita in Rue de Marai 91) e dove lavorava (nella miniera di carbone di Ougrer Marihai). Gli ambienti degli antifascisti italiani in esilio all’estero, dei “fuoriusciti”, come venivano chiamati allora, pullulavano di spie, di confidenti della polizia politica fascista, di infiltrati: per gli anarchici, come per gli altri gruppi antifascisti, era difficile sottrarsi ai tentacoli dell’Ovra, come ha documentato recentemente lo storico Mimmo Franzinelli in una sua poderosa ricerca (4).
Dopo la confessione o presunta tale si svolse una rapida istruttoria di due soli giorni (11-13 giugno 1932), condotta dal procuratore generale Vincenzo Balzamo. La mattina del 16 (dalle 9.00 alle 11.15) nella famosa aula della IV sezione del palazzo di giustizia di Roma, Sbardellotto venne rapidamente e sommariamente giudicato colpevole dei reati ascrittigli dal Tribunale Speciale presieduto da Guido Cristini e condannato a morte. Nelle ore successive alla lettura della sentenza egli evitò di presentare la domanda di grazia. “Ma che pentito e pentito, io rimpiango solo di non averlo ammazzato”, pare abbia detto all’avvocato d’ufficio che lo aveva invitato ad elemosinare pietà al duce. All’alba del giorno seguente, alle ore 5.45 del 17 giugno, dopo aver rifiutato il prete, Sbardellotto fu fucilato a Forte Bretta da un drappello di militi capitanati da Armando Giuia.

Angelo Sbardellotto

Testimonianze, ipotesi, ricordi

Il punto più intricato di tutta questa vicenda è, come abbiamo già ricordato, la confessione di Sbardellotto. Anzitutto, non è chiaro il motivo che spinse l’anarchico veneto a rilasciarla. Magrì, ad esempio, che riporta correttamente diverse ipotesi, ritiene in ogni modo che tra di esse la più probabile sia quella di un crollo psicologico causato dal fallimento della missione (5). Di diverso avviso fu invece Aldo Garosci – la cui versione dei fatti è comunque intrisa di inesattezze –, che scrisse: “Sotto tortura, Sbardellotto raccontò, in parte, la storia di alcuni suoi tentativi” (6). Va rilevato che le due ipotesi non si escludono vicendevolmente; né ci è dato di sapere se la polizia fascista abbia fatto qualche promessa all’arrestato per indurlo a “cantare”. In ogni caso, il rifiuto della grazia fu un atto di grande coraggio, tale da riscattare eventuali – e comunque umani e comprensibili – precedenti cedimenti. Per quanto riguarda la confessione, lo stato attuale delle conoscenze non consente di esprimere un giudizio certo; tuttavia, si possono fare alcune precisazioni e considerazioni. Da una parte, si può notare ad esempio come la versione di Sbardellotto sia molto particolareggiata, anche troppo precisa nelle date degli incontri con i presunti complici e di tutti gli spostamenti nei mesi precedenti l’arresto. L’anarchico veneto raccontò che quello nel quale era stato arrestato non era che l’ultimo di tre tentativi: per ben tre volte egli aveva varcato la frontiera ed era sceso sino a Roma nella speranza di sopprimere il tiranno.
Sostenne di aver confidato al compagno Vittorio Cantarelli (7) i suoi propositi tirannicidi in una riunione anarchica tenutasi a Bruxelles il 18 o il 19 marzo 1931 presso un albergo della Gran Palace, nella quale si era discusso della raccolta di fondi a favore di due anarchici italiani espulsi dal Belgio e delle iniziative per ricordare l’eroico sacrificio di Michele Schirru. Cantarelli, preso in parola il giovane, avrebbe fatto da tramite per il primo incontro di Sbardellotto con Emidio Recchioni (8), che l’anarchico veneto avrebbe conosciuto con lo pseudonimo da questi usato, “Nemo”: l’incontro sarebbe avvenuto, sempre a Bruxelles, nel luglio del 1931. Una volta accertatosi dell’affidabilità della persona, “Nemo” avrebbe proposto a Sbardellotto, come data ideale per compiere l’attentato a Mussolini, il 28 ottobre, nono anniversario della marcia su Roma.
Il secondo incontro tra Sbardellotto e “Nemo” si sarebbe svolto invece a Parigi dal 21 al 24 ottobre. A questo appuntamento avrebbe presenziato anche un altro individuo, di età compresa tra i trenta e i trentacinque anni, stempiato, capelli brizzolati, miope, con occhiali a stanghetta. Dalla conversazione Sbardellotto avrebbe capito che l’individuo in questione aveva abitato a Roma, nei pressi di Piazza Navona, e che aveva svolto un mestiere che aveva a che vedere con la tipografia. Mentre “Nemo” gli avrebbe dato oltre 2000 franchi, lo sconosciuto lo avrebbe rifornito di passaporto falso, bombe, pistola e una valigetta. Durante i giorni di detenzione precedenti al processo, Sbardellotto riconobbe – o credette di riconoscere, o fu indotto a riconoscere – nella foto di Alberto Tarchiani (9) l’enigmatico personaggio.
Per motivi di spazio e anche per il fatto che si tratterebbe di ripetere cose già ricordate recentemente (10), non ripercorreremo qui per esteso gli spostamenti e gli incontri di Sbardellotto tra il 24 ottobre 1931 e il 4 giugno 1932 (giorno dell’arresto), così almeno come risulta dal suo memoriale. Ci basterà dire che i due tentativi precedenti a quello dell’arresto, sarebbero avvenuti a Roma rispettivamente il 28 ottobre 1931, in occasione dei festeggiamenti del nono anniversario della marcia su Roma, e il 1 aprile. In entrambe queste due occasioni, come nella terza – Sbardellotto aveva cercato di colpire anche il giorno precedente l’arresto – l’anarchico di Mel sostenne di non essere riuscito ad avvicinarsi al duce, a causa dell’imponente servizio di sicurezza, nei luoghi in cui Mussolini presenziava a manifestazioni e commemorazioni pubbliche; affermò, inoltre, che erano stati vani anche gli appostamenti più o meno casuali di fronte ai luoghi solitamente frequentati dal dittatore. Nei mesi a cavallo tra un tentativo e l’altro, disse di essersi frequentemente spostato tra diverse nazioni europee (Belgio, Lussemburgo, Olanda, Germania, Francia), per evitare di essere localizzato e sorvegliato dalla polizia. Asserì di essere stato quasi sempre ospitato da compagni: Enrico Zambonini e Hem Day a Bruxelles, Ernesto Bruna a Dusseldorf. Gli incontri con Tarchiani e Recchioni sarebbero avvenuti a Parigi nei giorni precedenti e seguenti ad ogni tentativo.
Nei giorni e nei mesi successivi al processo, il regime fascista cercò in ogni modo di infamare l’anziano anarchico marchigiano e il militante di Giustizia e Libertà, accusandoli di essere i mandanti di Sbardellotto, e, attraverso questa operazione, tentò di screditare tutta l’opposizione antifascista in esilio, accusandola di terrorismo. Entrambi gli interessati respinsero con decisione le accuse. Tarchiani inviò tra l’altro il 19 giugno del 1932 una lettera alla “Libertà” di Parigi, che era l’organo della Concentrazione antifascista (un raggruppamento che comprendeva i partiti “aventiniani” e la L.I.D.U., la Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo), nella quale asserì che Sbardellotto era stato imboccato ad arte dai suoi inquisitori: cosicché le “rivelazioni” dovevano essere ritenute nulla più che vaneggiamenti della polizia e delle magistratura fasciste (11). Tarchiani, nella missiva, sostenne in particolare di essere in grado di documentare ampiamente il fatto che nei giorni di uno dei supposti incontri con Sbardellotto egli si trovava in Germania (12). Nel dopoguerra, divenuto ambasciatore italiano negli Stati Uniti, l’ex membro di G.L. si guardò bene dal ritornare su una vicenda che certo non poteva giovare alla sua immagine: un passato di cospiratore, per di più dinamitardo, non è certo un curriculum ideale per un diplomatico. Recchioni, dal canto suo, non solo negò il fatto ma pure vinse una causa per diffamazione contro il “Daily Telegraph”, che aveva sostenuto senza prove la tesi della sua responsabilità, ottenendo dal quotidiano inglese 1.177 sterline di risarcimento.
Le reticenze dei due erano in ogni caso obbligate: se innocenti, perché ingiustamente coinvolti in una vicenda che non li riguardava; se colpevoli, perché era loro diritto difendersi e soprattutto evitare di compromettere la lotta antifascista presente e futura.
In assenza di documenti che attestino con sicurezza le responsabilità nel tentativo tirannicida di Sbardellotto da parte di Recchioni e di Tarchiani, altro non si può fare se non capire, quantomeno, la verosimiglianza o meno dell’accusa mossa dall’anarchico veneto nel suo memoriale. Sotto questo profilo, servendosi di alcuni dati storici e di alcune recenti ricerche, si può senz’altro affermare che l’ipotesi di un coinvolgimento dei due ha quantomeno un saldo fondamento logico, storico e politico.
Emidio Recchioni, anarchico di vecchia data, già amico e collaboratore di Malatesta, morì in un ospedale di Neully, nei pressi di Parigi, nel 1934, in seguito all’ennesima operazione alla gola per un male di cui soffriva da tempo. Da sempre generoso finanziatore della stampa anarchica, dopo l’avvento del fascismo mise a disposizione del movimento libertario buona parte del discreto capitale che aveva accumulato in anni di attività commerciale, per azioni, diciamo così, più pratiche. In un suo necrologio apparso su l'”Almanacco Libertario”, che si pubblicava a Ginevra, l’anonimo e commosso articolista scrisse: “Il fascismo lo ebbe sino all’ultimo avversario acerrimo ed attivo, tanto che all’occasione degli attentati di Schirru e di Sbardellotto contro il ‘duce’, il suo nome fu citato nella stampa ed al processo, ed il fascismo tentò di valersene per rovinare la sua situazione finanziaria. Chi scrive lo ricorda sempre ardente di fede e di passione rivoluzionaria, pronto ad ogni momento a suscitare e secondare le iniziative, specie sul terreno dell’azione ch’egli considerava come la cosa più urgente e più importante, nonostante le preoccupazioni non lievi che gli derivavano dalla sua azienda e dal suo male, e le cure ch’ei doveva alla sua famiglia che aveva particolarmente cara” (13).
Recchioni del resto, nei mesi successivi alle “rivelazioni” di Sbardellotto – che furono anche i suoi ultimi mesi di vita – si era preoccupato più di togliersi di dosso la nomea costruitagli dalla stampa fascista del mandante privo di scrupoli che aveva spedito allo sbaraglio un giovane incosciente piuttosto che di respingere l’accusa di aver aiutato l’anarchico di Mel. In un articolo firmato Nemo comparso su “L’Adunata dei Refrattari”, il glorioso settimanale anarchico in lingua italiana di New York che cessò le pubblicazioni solo nel 1971, egli sottolineò giustamente che tra gli anarchici non può instaurarsi un rapporto del tipo mandante-sicario. Recchioni difese l’onore di Sbardellotto (e forse anche il suo) scrivendo che “la mala pianta del sicario non alligna in terreno anarchico”; Sbardellotto, “uomo di fede purissima ha pagato colla vita un’intenzione tanto più eroica in quanto poteva celarla” (14).
Recentemente, un articolo comparso sul settimanale “L’Espresso” si è occupato della figura di Recchioni, fornendo particolari inediti che confermerebbero la complicità nella vicenda Sbardellotto dell’anarchico romagnolo, naturalizzato inglese nel 1929 dopo l’avvento al potere del partito laburista. Nell’articolo in questione, si cita tra l’altro un rapporto dell’Home Office su Recchioni, stilato in seguito ad una indagine voluta dal ministro Sir Herbert Samuel, su pressione del ministero degli Affari Esteri italiano che chiedeva insistentemente l’estradizione dell’anarchico accusato da Sbardellotto: indagine ordinata proprio allo scopo di verificare se le date degli spostamenti a Parigi di Recchioni coincidessero con quelle dichiarate da Sbardellotto. Nel rapporto menzionato si può leggere il seguente passaggio: “Recchioni era in Francia nelle date menzionate da Sbardellotto. Dalla verifica delle date di viaggio sembra probabile che sia la persona che ha consegnato le bombe” (15). Dai documenti risulterebbe inoltre che il capo di Scotland Yard, Lord Trenchard, e lo stesso ministro Samuel, una volta scoppiata la causa tra Recchioni e il “Daily Telegraph”, abbiano ordinato al colonnello Philips Carrè Carter, in servizio a Scotland Yard, l’agente che da anni sorvegliava Recchioni e che era stato chiamato a testimoniare dal quotidiano inglese, di non presentarsi in aula. Perché? È possibile che Recchioni, come sostiene Bernabei nell’articolo in base ad una esplicita lettera a riguardo dello stesso Trenchard, godesse di influenti amicizie nel partito laburista, forse di quella dello stesso primo ministro MacDonald. Se anche così fosse, nulla di male. Anzi. È una piccola consolazione, in questa storia di dolore, immaginare la rabbia provata dai vertici del regime fascista e dall’agente Carter, uno zelante funzionario che aveva tentato in tutti i modi di opporsi alla naturalizzazione di Recchioni, uno spione che probabilmente mandava all’Ovra rapporti confidenziali su Recchioni e sugli antifascisti italiani (16).
C’è un filo rosso e nero che lega, alla fine degli anni venti, Emidio Recchioni a Camillo Berneri e questi agli esponenti di punta di Giustizia e Libertà. Non è assurdo pensare che sia stato proprio Berneri il tramite per la collaborazione tra Recchioni e i membri di G.L.; una collaborazione che potrebbe benissimo essere proseguita nei mesi seguenti al complotto ordito ai danni di Berneri dall’infiltrato trentino Ermanno Menapace, a causa del quale l’anarchico di Lodi fu costretto a defilarsi momentaneamente dall’attività antifascista più militante ed anche in conseguenza del quale egli allentò i contatti con i membri di G.L. per qualche anno (17).
Nell’agosto del 1929, dopo una clamorosa fuga in motoscafo dal confino di Lipari organizzata dallo stesso Tarchiani la notte del 27 luglio, erano giunti a Parigi Carlo Rosselli ed Emilio Lussu. Fu questo un fatto decisivo per i successivi sviluppi della lotta antifascista degli esuli politici italiani. Occorre ricordare che, eccettuati gli anarchici e alcuni individui di area socialista, repubblicana e liberaldemocratica, le forze antifasciste erano contrarie alle azioni individuali, ai tentativi di uccidere Mussolini in Italia mediante missioni “suicide”. Soprattutto nei primi mesi dopo la sua costituzione, invece, G.L., fondata quello stesso 1929 a Parigi, si caratterizzò, avvicinandosi in questo agli anarchici, per una propensione a lottare contro il fascismo anche tramite azioni “terroristiche”, individuali o di gruppo. Così Aldo Garosci, uno degli attivisti del movimento, ricorda l’originale posizione del gruppo di Rosselli a cavallo degli anni trenta: “Dal ‘partito d’azione’, dagli anarchici e dai repubblicani, in forza della stessa posizione di rivolta, “G.L.” eredita una propensione che è stata qualificata da altri come terroristica (e che forse gli stessi organizzatori del movimento credevano tale all’origine)” (18).
Berneri è tra i primi a rendersi conto dell’importanza, per la lotta antifascista, dell’arrivo a Parigi di Rosselli e Lussu, come dimostra un passaggio di una lettera spedita a Luigi Fabbri in Uruguay: “Tu sei troppo lontano per vedere la situazione di qui. Questa è migliorata, specie dopo la venuta di Rosselli e di Lussu” (19). Berneri conosceva i Rosselli sin dai tempi della sua frequentazione del Circolo di Studi Sociali, fondato a Firenze proprio dai fratelli socialisti sull’impulso di Gaetano Salvemini, loro comune maestro (era stato, tra l’altro, relatore di tesi dell’anarchico lodigiano). A Parigi, Berneri riallacciò i legami sia con Carlo Rosselli sia con Salvemini, che era stato tra i fondatori di G.L., sia con gli altri uomini di punta del movimento: per alcuni mesi essi progettarono insieme diversi attentati. Un “promemoria della polizia politica a sua eccellenza il capo del governo” del 6 dicembre 1929, frutto dell’azione spionistica di Menapace, informava minuziosamente Mussolini dell’attività antifascista di Berneri: in particolare, delle sue richieste di finanziamento a Recchioni e del progetto di un attentato alla Società delle Nazioni di Ginevra in collaborazione con altri anarchici e con Rosselli, Cianca e Tarchiani di G.L. (20).
Certo, l’uscita di scena momentanea di Berneri, nel gennaio del 1930, fu un grave colpo per questo sodalizio. Ed è pur vero che solo qualche mese più tardi, nell’autunno del 1931, G.L. aderì alla Concentrazione antifascista, fatto con il quale essa si allontanò da quegli anarchici che, come Berneri, erano disposti ad un’alleanza pratica e ad un confronto teorico con questo movimento; tuttavia G.L. rimase ancora per molti mesi favorevole alle azioni “terroristiche” e solo nell’estate del 1932, a causa del fallimento di alcune azioni e della dura repressione che aveva colpito i militanti del movimento in Italia, inizia per G.L. “un declino dell’attività ardita” (21).
È pertanto possibile che, anche dopo l’allontanamento di Berneri, deluso anche per le posizioni filoconcentrazioniste che G.L. stava sempre più assumendo, e fino almeno all’estate del 1932, membri del gruppo di Rosselli e alcuni anarchici abbiano collaborato per portare a termine “azioni ardite”, tra cui il tentativo di Sbardellotto. In questo caso, è plausibile che Alberto Tarchiani, che insieme ad Emilio Lussu era tra i più convinti propugnatori di attentati a Mussolini, sia stato della partita, così come non è improbabile che lo stesso Lussu sia stato in qualche modo coinvolto nel tentativo di Michele Schirru (22). In una lettera scritta nel 1980, in un periodo in cui era venuta meno l’opportunità politica di un certo riserbo su questi fatti, lo stesso Aldo Garosci – che nella Vita di Carlo Rosselli, libro pubblicato all’indomani della Liberazione, quando i membri di G.L. si affacciavano sulla scena pubblica nazionale con grandi speranze politiche, aveva decisamente negato il coinvolgimento di Tarchiani nel tentativo di Sbardellotto – sottolineò un punto molto importante: “L’abbandono dei conati terroristici si ebbe definitivamente dopo il processo Bovone… meno, naturalmente, che per gli attentati a Mussolini, che continuarono a venir studiati dal futuro ambasciatore Tarchiani” (23).
Nell’opuscolo già ricordato fatto stampare da G.L. alla fine del 1932, Il Tribunale Speciale fascista, scritto da Gaetano Salvemini, pur prendendo le distanze dalle azioni individuali di “terrorismo” e pur negando responsabilità di G.L. nel caso Sbardellotto, si difese l’azione e il contegno di questi e di Michele Schirru, definendoli eroici (24).
Sul comportamento tenuto da Sbardellotto durante il processo in parte si è già accennato. Egli rifiutò di firmare la domanda di grazia, così come rifiutò l’assistenza religiosa prima di essere fucilato. Morì effettivamente eroicamente, come eroico e disperato fu il suo tentativo di liberare l’Italia dalla dittatura. Sulle ultime ore di Sbardellotto esiste anche una testimonianza diretta, quella del secondino che aveva sorvegliato il giovane anarchico nelle ore precedenti la fucilazione. La testimonianza fu raccolta da un giornalista de “Il Momento” e pubblicata nel quotidiano romano il 17 ottobre 1946. Ugo Fedeli, importante militante libertario e storico del movimento operaio, ne riportò ampi stralci in un suo studio sull’antifascismo anarchico pubblicato in parte solo recentemente nel “Bollettino Archivio Giuseppe Pinelli”. Da tale racconto si ricava che Sbardellotto trascorse le ultime ore serenamente, rimpiangendo solo di non essere riuscito nell’intento di sopprimere il tiranno. Secondo la testimonianza, quando fu svegliato, alle quattro del mattino, per essere condotto di fronte al plotone di esecuzione, accese una sigaretta, si vestì lentamente, come se si preparasse per avviarsi al lavoro, ed uscì dalla cella. Prima di imboccare le ripide scalette, accese un’altra sigaretta, si soffermò sul cancello che immette alla rotonda, si volse indietro e con un largo gesto della mano abbracciò tutti i compagni di carcere che non avrebbe mai più visto: “Arrivederca tutti!” gridò. Ed uscì tra le guardie a testa alta. E prima che la raffica troncasse quella giovinezza offerta ad un ideale di libertà, gettò in faccia al mondo il suo grido di fede: “Viva l’anarchia” (25).
Nel ricordo del secondino c’è però ben di più che la descrizione del fermo contegno tenuto dall’anarchico di fronte alla morte. Sbardellotto avrebbe infatti confidato un particolare che non risulta né dagli atti processuali né dalle ricostruzioni della vicenda in riferimento al terzo e ultimo viaggio in Italia compiuto dall’anarchico di Mel per uccidere Mussolini. “Ero a Piazza dell’Esedra, sotto i portici. Lui passò a pochi metri da me”, avrebbe detto Sbardellotto alla guardia. “Stavo per lanciare la bomba, calcolai la distanza, freddamente, ma all’ultimo momento un pensiero mi trattenne: lui era circondato da migliaia di persone e la bomba aveva un raggio d’azione di duecento metri, sarebbe stata una carneficina. Centinaia di innocenti avrebbero pagato per una colpa non loro. Lui doveva pagare, lui solo. Non lanciai la bomba, ma ormai era tutto finito” (26). Secondo la versione “ufficiale” Sbardellotto non sarebbe riuscito ad avvicinarsi a Mussolini in nessuno dei tre tentativi da lui compiuti per uccidere il dittatore. Nella conversazione con il secondino l’anarchico di Mel avrebbe invece sostenuto proprio il contrario, e cioè di essere riuscito ad avvicinare il “duce” tanto da averlo a portata di tiro, ma di aver scelto di non lanciare le bombe per non causare una strage.
È possibile che il secondino abbia romanzato il suo racconto, o che se lo sia addirittura inventato di sana pianta? È possibile che a romanzare la storia sia stato lo stesso Sbardellotto, per rendere più umana la sua immagine agli occhi dei posteri, un’immagine che il regime, attraverso i suoi esponenti e i suoi organi propagandistici, presentava fin dal giorno successivo al suo arresto come quella di un mostro? E perché, qualora questa testimonianza sia veritiera, l’anarchico non decise di usare, al posto delle bombe, la pistola che pure aveva con sé?
Improbabile che, a distanza di tanti anni, si possa sciogliere questo ulteriore dubbio. Certo è che Sbardellotto doveva essere ben cosciente del fatto che difficilmente, per usare un eufemismo, avrebbe potuto incontrare Mussolini a tu per tu, in una piazza e in una strada deserte. Tuttavia, egli potrebbe anche essere stato assalito, proprio all’ultimo momento, da un dubbio paralizzante di fronte alla possibilità di causare una strage: pensiero che, pur con tutto l’amore possibile nei confronti della libertà e con tutto l’odio immaginabile nei confronti della tirannia, non ci sentiremmo di biasimare. Le vittime innocenti sarebbero state certe, la fine del regime liberticida molto meno, e operare un male certo in virtù di un bene solo probabile, è scelta etica – e politica – quantomeno drammatica. Comunque sia, la parabola umana e politica di Angelo Sbardellotto è destinata a rimanere per molti aspetti non del tutto chiara. I testimoni dell’epoca sono tutti morti, e nessuno ha più voglia di ricordare un evento che sembra accaduto secoli fa. Se Magrì non avesse rispolverato questa vicenda, nessuno, nemmeno al suo paese, avrebbe più parlato della storia di Sbardellotto.
Sono andato a Mel, una calda mattina della scorsa estate, per incontrare uno dei fratelli più giovani di Angelo, che è ancora vivo e che abita nella casa di riposo del paese. Ultraottantenne, convive con i problemi di salute caratteristici dell’età avanzata. La sua memoria, comprensibilmente, non è più quella di un tempo: certi avvenimenti, però, non si cancellano mai. È stato molto gentile e disponibile, nonostante si capisca che non ha molta voglia di ritornare con la memoria ad una vicenda che l’ha coinvolto e segnato così profondamente suo malgrado. Mi ha raccontato più o meno le stesse cose che ha detto a Magrì e che sono riportate nel libro del giornalista.
Del fratello ha un ricordo legato all’infanzia: quando Angelo, nel 1924, emigrò in Francia, lui era ancora un bambino. “Dormivamo nella camera assieme. Ricordo che Angelo era un ragazzo molto vivace. Con la mamma andava poco d’accordo perché la mamma era bigotta”. Gli chiedo se Angelo avesse già una coscienza politica prima di andare all’estero: “Aveva simpatie per il socialismo. Rimase assai scosso quando il 1 maggio del 1922 il socialista Edoardo Mattia fu ucciso nel paese dai fascisti a casa sua, mentre mangiava”. Pochi mesi dopo, non per ragioni politiche, bensì, com’era più comune, per sopravvivenza, Angelo emigrò in Francia. Olivo ricorda il dolore della madre nel leggere la lettera che Angelo le scrisse nel ’28, per annunciarle il suo rifiuto di tornare in Italia a svolgere il servizio militare. Ha scritto una lettera piena di malegrazie, “non voglio avere nulla a che fare con questa patria scalcinona”, tutto un lavoro così; ha scritto che lui aveva un’altra patria e un altro dio da seguire, santi e preti, frati e monache imboscati viva l’anarchia. La mamma è rimasta male, è andata a confidarsi dal prete che le ha detto: “Guardi di non distruggerla, la nasconda, la cucia in qualche cuscino perché non si sa mai”.
Proseguendo nei ricordi, la sua voce si incrina quando descrive l’interrogatorio subìto dalla polizia poche ore dopo l’arresto di Angelo a Roma. Olivo fu prelevato dalla sua casa a Mel assieme ai genitori e interrogato su eventuali complicità della famiglia. “Noi non sapevamo niente. Mi hanno interrogato, me ne hanno fatte di tutti i colori. Quella notte me ne hanno dato un pesto, per farmi parlare”. Mi mostra la cicatrice che porta ancora come perenne ricordo di quelle mani gentili. “Mi hanno riempito di ceffoni. Il giorno dopo lo stesso. Loro avevano sospettato che io fossi in collegamento con la Francia e l’Inghilterra”. Arguzie poliziesche. Naturalmente, Olivo e la sua famiglia furono subito liberati e scagionati, ma nel paese si creò un vero e proprio cordone sanitario intorno alla famiglia del “terrorista”. Fortunatamente, i fascisti locali non andarono oltre le minacce.
Qualche anno dopo, forse per lavarsi la coscienza, Mussolini convocò a Roma proprio Olivo. Questi fu protagonista di un “epico” incontro con il “duce”, che lo beneficiò di una sconcertante parabola contadina fascisticamente corretta. Olivo ricorda con ironia l’episodio. “Sono venuti a prendermi. Mi hanno detto che bisognava fare un viaggio a Roma. ‘Il Duce vuole conoscerlo’, si è limitato a dirmi il fascista che mi ha accompagnato in treno nella capitale. Alla stazione c’era una macchina che aspettava e che ci ha portati subito a Palazzo Venezia. ‘Questo giovane va vestito con la divisa da caposquadra dell’avanguardismo: ordine del duce!’, ha affermato il funzionario appena arrivati. Una volta vestito, mi hanno accompagnato nel salone. ‘Duce, c’è il giovane Olivo Sbardellotto’, ha esclamato l’accompagnatore, che poi si è immediatamente ritirato. Lui non ha neanche alzato la testa, continuava a scrivere. Sono passati alcuni minuti di silenzio, poi si è alzato. Incontrandolo nello sguardo, sa, mi è arrivato un po’ di batticuore. ‘Come va?’, mi ha chiesto. ‘Bene, Eccellenza’. ‘Desideravo conoscerti perché voglio che tu diventi un buon fascista. Quello che è successo doveva succedere, perché anche nella pianta, quando non dà frutto, potano il ramo, per farla produrre di più: così siamo noi. E auguri di andare sempre bene’. Ha battuto il maglio sul tavolo e mi hanno portato via”.
Olivo rammenta con amarezza che la benedizione del duce non gli servì proprio a nulla negli anni del regime: l’essere il fratello di quel disgraziato che aveva cercato di ucciderlo continuò ad essergli di ostacolo nelle relazioni sociali e soprattutto nella professione. Come milioni di altri suoi concittadini, Olivo, durante la dittatura di Mussolini, è stato obbligato ad essere fascista; ma in cuor suo, mi dice, fascista non è mai stato. “Non ho mai avuto nessun disprezzo del fratello”, sostiene, tant’è vero che dopo l’arresto e la fucilazione di Angelo si è opposto all’idea di cambiare nome come suggeritogli da uno zio con la camicia nera. Gli domando cosa ne pensa delle idee del fratello. “A me è dispiaciuto più che altro dello screzio tra Angelo e la mamma. Non avrebbe dovuto scrivere lettere così offensive. Per il resto, ognuno ha le sue idee. Angelo aveva le sue, non me la sento di giudicarle. Ognuno va al mulino con il suo sacco”: espressione che, pronunciata da un figlio di mugnaio, suona assai calzante. Olivo comunque, non ha mai approfondito le idee del fratello; non è mai stato anarchico e sottolinea che non vuole che questa storia venga usata dagli anarchici a fini propagandistici: “Non ci tengo a che gli anarchici sbandierino il nome”.
A parte Olivo, di questa storia a Mel pare non sapere nulla quasi nessuno. Il regime aveva fatto tutto quanto era in suo potere per cancellare la memoria di questo ragazzo ribelle; alla famiglia Sbardellotto fu sequestrato tutto ciò che aveva a che fare con Angelo: le lettere, le foto. Tutto. Al resto hanno pensato, nel dopoguerra, il conformismo, la paura, l’indifferenza. Il tempo un gran galantuomo? La realtà è che Angelo Sbardellotto è stato semplicemente cancellato, rimosso. “Prima che uscisse il libro di Magrì non sapevamo quasi nulla”, mi dice Gianni Sbardellotto, un parente alla lontana di Angelo, che gestisce una cartoleria. Mi indirizza da Giovanni Sartori, che abita lì vicino. È la memoria storica vivente del paese, un erudito cultore delle tradizioni locali (ha scritto un bel libro sulla storia di Mel). Sartori è un personaggio in vista nel paese, sia per le sue ricerche sia per i suoi trascorsi politici (è stato anche sindaco in una giunta democristiana negli anni ’60). “Su quel periodo bisognerebbe mettere una bella pietra sopra e di questa vicenda in particolare sarebbe meglio non occuparsi”, sostiene, forse per scoraggiarmi. Troppi, mi dice, sono stati gli odi e le vendette, da una parte e dall’altra, negli anni del fascismo e in quelli della resistenza. A che serve rivangare il passato? “Angelo è andato via troppo giovane, per il Comune e per la gente è come se non fosse mai esistito”, mi risponde quando gli dico che a mio modesto parere è vergognoso che ad Angelo Sbardellotto non sia intitolata nemmeno una via. Della vicenda l’ex sindaco ha una sua idea, che probabilmente coincide con la spiegazione che in paese si sono fatti della storia. Una versione a mio avviso semplicistica che, sia detto senza nessuna volontà offensiva, mi ricorda la storiella della mamma che raccomanda al figlio di non accettare le caramelle dagli sconosciuti: la famiglia di Angelo era molto cattolica; quando Angelo è emigrato in Francia era un ragazzo ingenuo; lì ha cominciato a frequentare cattive compagnie, che l’hanno mal indirizzato.
Chissà se a Mel gli abitanti, o almeno i discendenti della famiglia Sbardellotto, vorranno recuperare la memoria storica e ricordare questo loro avo che per ben tre volte, sfidando le leggi di uno Stato totalitario, tornò dal Belgio, dove era stato spinto dalla fame, per cercare di restituire al popolo la libertà che aveva perduto: quella libertà che gli italiani, in generale, non si dimostravano allora tanto bramosi di riconquistare, come oggi non appaiono, evitando di ricordare chi per essa ha sacrificato la vita, così desiderosi di onorare.

NOTE

1. In uno dei suoi ultimi studi, Pier Carlo Masini, lo storico dell’anarchismo e del movimento operaio recentemente scomparso, ha sostenuto in maniera convincente la tesi che quello di cui fu oggetto Mussolini il 31 ottobre del 1926 a Bologna non sia stato un vero attentato: si sarebbe trattato in realtà di una macchinazione ordita dallo stesso capo del governo al fine di introdurre più velocemente le leggi speciali atte a perfezionare la costruzione del regime dittatoriale. Cfr. Pier Carlo Masini, L’attentato di Bologna, in “Rivista storica dell’anarchismo” n. 2, 1998, pp. 15-32.
2. Cfr. Cesare Rossi, Il Tribunale Speciale, Casa Editrice Ceschina, Milano 1952, pp. 321-31; Giovanni Artieri, Tre ritratti politici e quattro attentati, Atlante, Roma 1953, pp. 221-26.
3. Nella scheda relativa a Sbardellotto del Casellario Politico Centrale, nello spazio dedicato al colore politico si può notare che la qualifica di anarchico è stata stampata quasi sovrapposta a quella di comunista: quest’ultima risulta cancellata da due linee di penna orizzontali. È probabile che Sbardellotto, come molti altri anarchici dopo la nascita del PCd’I, sia stato inizialmente schedato come comunista, e che solo successivamente si sia specificata con più precisione la sua identità politica. Un ingrandimento fotografico della prima pagina del CPC di Sbardellotto sta in “Libertaria”, n. 3, 2000, p. 74.
4. Cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, Bollati Borlinghieri, Torino 1999.
5. Magrì, I fucilati di Mussolini, cit., p. 100.
6. Aldo Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Edizioni U, Roma – Firenze – Milano, vol. I, p. 256.
7. Vittorio Cantarelli, nato a Castenuovo di Sotto il 10 ottobre 1882, fu fin dall’adolescenza attivo militante anarchico. Nel 1905 figura tra i redattori de “Il Libertario” di La Spezia. Emigrato in Francia nel 1910, dal 1928, dopo il suo trasferimento a Bruxelles, assunse un ruolo di primo piano nel C.I.D.A. (Comitato Internazionale di Difesa Anarchica). Durante la guerra civile e la rivoluzione spagnola, svolse un ruolo di fondamentale sostegno alla lotta libertaria del popolo spagnolo in qualità di organizzatore del Comitato Pro Spagna di Bruxelles, occupandosi in particolare dell’arruolamento dei volontari e dell’invio clandestino di armi. Durante la seconda guerra mondiale fu arrestato in Polonia dai nazisti e consegnato al Brennero, il 9 febbraio 1941, dalla polizia tedesca a quella italiana. Processato per il progetto di attentato di Sbardellotto, sulla base della famosa confessione fu condannato il 28 maggio di quello stesso anno a 30 anni di carcere dal Tribunale Speciale. Su Cantarelli scarne notizie in Camillo Berneri, Epistolario Inedito, vol. II, Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1984, p. 87n. Per una sintetica visione degli antifascisti anarchici italiani in Belgio, tra cui Cantarelli, cfr. anche Anne Morelli, Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio (1922-1940), Bonacci, Roma 1987, pp. 102-11.
8. Emidio Recchioni, nato a Russi (RA) nel 1864, morto a Parigi nel 1934, divenne anarchico anche grazie all’influenza che su di lui esercitò Cesare Agostinelli. Entrato in amicizia con Errico Malatesta, ne divenne collaboratore assiduo, pubblicando in Ancona “L’articolo 248” nel 1894 e “L’agitazione di Ancona” nel 1898. Pagò personalmente in numerose occasioni la dura repressione governativa: tra l’altro, scontò 18 mesi di carcere per l’attentato contro Crispi e cinque anni di confino. Per sottrarsi alle persecuzioni poliziesche si rifugiò nel 1900 a Londra, città nella quale continuò a sostenere molte attività dell’anarchismo internazionale e in cui costruì una discreta fortuna economica fondando un’impresa di distribuzione di specialità alimentari italiane. Il negozio di prodotti italiani da lui gestito nella capitale inglese aveva un nome assai eloquente: “King Bomba”. A Londra, continuò tra l’altro la collaborazione con Malatesta e i suoi giornali, ad esempio “L’Agitazione”. Qualche anno più tardi, fu generoso sottoscrittore del quotidiano anarchico “Umanità Nova”, di cui fu anche corrispondente estero per l’Inghilterra. Collaboratore di varie testate anarchiche internazionali (“La Protesta” di Buenos Aires, “L’Adunata dei Refrattari” di New York, etc.), mise il suo capitale a disposizione del movimento anarchico nella lotta contro il fascismo, venendo implicato in vari attentati, tra cui quelli di Schirru e di Sbardellotto. In questi ultimi anni di vita, entrò in amicizia e in collaborazione con Camillo Berneri: questo sodalizio fu il tramite per il legame tra il figlio di Emidio, Vernon Richards (Vero Recchioni) nato a Londra nel 1915, autore tra l’altro di un importante studio sulla rivoluzione spagnola (Insegnamenti della rivoluzione spagnola, Vallera, Pistoia 1974) e la figlia primogenita di Camillo, Maria Luisa (Arezzo, 1.03.1918 – Londra, 13.04.1949), brillante studiosa e autrice di una ricerca sull’utopia che tutt’oggi risulta tra i più acuti studi sull’argomento (Viaggio attraverso Utopia, Mai, Carrara 1977). Un’unione, quest’ultima, che fu tragicamente interrotta dalla precoce morte, a soli 31 anni, di Maria Luisa: evento luttuoso per i suoi famigliari e perdita irreparabile per il movimento anarchico internazionale. Su Emidio Recchioni cfr. Berneri, Epistolario Inedito, vol. II, cit., p. 65; Storie di anarchici e di anarchia, Biblioteca Panizzi; Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa, Reggio Emilia 2000, pp. 45-8.
9. Alberto Tarchiani (Roma, 1.11. 1885 ñ1964) giornalista, fu per qualche anno corrispondente di giornali italiani da New York. Interventista nella prima guerra mondiale, tornò in Italia nel 1918 per partecipare alle vicende belliche come volontario in fanteria. Dal 1919 al 1925 fu redattore capo del “Corriere della Sera”. Nel 1925, quando il giornale passò completamente sotto il controllo dei fascismo, espatriò a Parigi. Militante antifascista, si legò al gruppo di esuli che si raccoglieva intorno a Gaetano Salvemini. Fu lui il principale organizzatore della fuga dal confino di Lipari, il 27 luglio 1929, di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Saverio Nitti. Con Salvemini, Rosselli e altri fu tra i fondatori di G.L. (Giustizia e Libertà) a Parigi lo stesso anno. Nei primi mesi del 1930 fu coinvolto insieme a Rosselli, Berneri e altri nel complotto ordito dalla spia Menapace. Nel 1934, in seguito a divergenze ideologiche con Carlo Rosselli, si allontanò da G.L.. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1940, diede vita all’associazione antifascista “Mazzini Society”. Rientrò in Italia nell’agosto del 1943 e fu ministro dei LL.PP. nel governo di Salerno nel 1944. Nel secondo dopoguerra, dal 1945 al 1955, fu ambasciatore italiano a Washington dal 1945 al 1955. Per l’attività antifascista di Tarchiani in Francia cfr. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, cit., e Id., Storia dei fuoriusciti, Laterza, Bari 1953.
10. Cfr. Magrì, I fucilati di Mussolini, cit., e Giuseppe Galzerano, Attentati anarchici a Mussolini, in AaVv, L’antifascismo rivoluzionario tra passato e presente, BFS, Pisa 1993, pp.3-8.
11. Lettera di Alberto Tarchiani al Direttore della Libertà, Parigi, 19 giugno 1932, in Il Tribunale Speciale fascista (reprint), a cura di Giuseppe Galzerano, Galzerano, Casalvelino Scalo (SA) 1992, p. 83. Un’ampia bibliografia riguardante testimonianze e studi sulle varie correnti del fuoriuscitismo e dell’antifascismo sta in Emilio Gentile, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Le Monnier, Firenze 2000, pp. 516-36 (Giustizia e libertà, pp. 534-5; anarchici, p. 536).
12. Ivi, pp. 83-4.
13. I nostri scomparsi, in “Almanacco Libertario”, anno VII, Ginevra 1936, p. 22. Corsivo mio.
14. “L’Adunata dei refrattari”, 16 luglio 1932, cit. in Galzerano, Attentati anarchici, cit., p. 96.
15. Cit. in Alfio Bernabei, Quelle due bombe venute da Londra, “L’Espresso”, 25 marzo 1999, p. 116.
16. Cfr. Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 201-2.
17. Sul caso Menapace cfr. tra gli altri: Berneri, Epistolario Inedito, vol. II, cit., pp. 52-3; Francisco Madrid Santos, Camillo Berneri. Un anarchico italiano (1897-1937) tra rivoluzione e controrivoluzione in Europa (1917-1937), Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1985, pp. 205-18; Morelli, Fascismo e antifascismo, cit., pp. 105-11; Franzinelli, I tentacoli dell’Ovra, cit., pp. 205-9.
18. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, vol. I, cit., p. 200.
19. Camillo Berneri a Luigi Fabbri, Parigi, novembre 1929, ora in Berneri, Epistolario inedito, vol. II, cit., p. 46.
20. Promemoria della polizia politica a sua eccellenza il capo del governo, Roma 6 dicembre 1929, ora in ivi, pp. 256-8. Sui rapporti tra Berneri, e più in generale gli anarchici, e G.L. cfr. Luigi Di Lembo, L’Europa tra guerra di stato e guerra di classe (1919-1939), in AaVv, L’antifascismo rivoluzionario, cit., pp. 19-21; Madrid Santos, Camillo Berneri, cit., pp. 245-64.
21. Garosci, La vita di Carlo Rosselli, vol. I, cit., p. 259.
22. A questo proposito cfr. Fiori, L’anarchico Schirru, cit., p. 172.
23. Aldo Garosci a Manlio Brigaglia, 30 aprile 1980, ora in ivi, p. 173.
24. Il Tribunale Speciale, cit., pp. 75-6.
25. Ugo Fedeli, Una resistenza lunga vent’anni, in “Bollettino Archivio Giuseppe Pinelli”, n.5, Milano 1995, pp. 20-1.
26. Ivi, p. 20.

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