[ da www.liberazione.it ]
Siate lieti e ottimisti. I tempi della politica naif sono finalmente terminati. Questi primi mesi di governo stanno facendo piazza pulita di tutte le scorie di idealismo che a lungo avevano imperversato presso vasti settori della sinistra partitica e di movimento. Su guerra, precarietà, politica economica e sociale, solo adesso percepiamo la forza della controparte, la capacità dell’alleato/avversario politico di ridurre ai minimi termini il potere contrattuale delle nostre rappresentanze, di dividerle per neutralizzarle. Era ora, badate. Dopo anni di comodi slogan, di chiacchiere pretenziose sulla opportunità di far tabula rasa della Storia e di inventare un modo carino, facile e improvvisato di “fare sinistra”, milioni di giovani scoprono oggi la durezza del Reale, l’immane fatica del conflitto politico. Essi scoprono che senza le dovute pressioni e vigilanze la democrazia si svuota e muore. E’ come se Rousseau l’avesse scritto ieri, apposta per noi: non si può votare un giorno e restar schiavi per il resto del tempo. La norma del parlamentarismo borghese è infatti sempre stata l’oligarchia. I rappresentanti del popolo, anche i più fermi ed onesti, vengono da essa fagocitati, messi in ginocchio, e alla fine comprati o ridotti al silenzio. La democrazia progressiva è stata invece una rara eccezione del Novecento. Ma quest’ultima, per esser davvero praticata, esige che ogni giorno si rinnovi un legame stringente tra le masse e i delegati. Esige cioè quella complessa miscela di mobilitazione e struttura che ha sempre caratterizzato i punti alti della storia del movimento dei lavoratori, e le sue dirompenti intersezioni con gli altri grandi movimenti di emancipazione sociale.
In un’epoca attraversata dal più becero spontaneismo parlare della fatica del conflitto può insomma farci solo del bene.
Ed è in tal senso benefico che monti, in seno alla sinistra, una tensione interna, uno scontro propulsivo tra il movimento e le rappresentanze politiche. Posto che sia ben gestita, e che non degeneri in una deriva centrifuga, è questa la tensione necessaria per spostare l’asse del conflitto e della trattativa nella giusta direzione: vale a dire verso una strategia di uscita dalle fallimentari guerre vetero-imperialiste da un lato, e verso la messa in crisi di una meccanica economica basata oggi più che mai sulla riduzione del lavoro a mero residuo del sistema. Nessuno è così folle da spingere, allo stato dei fatti, per una caduta da sinistra di questo governo. Ma in una fase in cui la borghesia, ogni giorno e a gran voce, reclama le maggioranze variabili, il nesso tra mobilitazione sociale ed iniziativa politica rappresenta l’unica carta di cui disponiamo per non esser messi nell’angolo, per non esser trasformati in docili ancelle.
E’ in quest’ottica mutagenetica che interpreto anche l’assemblea di oggi contro la precarietà. Il movimento cambia pelle, si trasforma, riassume la centralità del lavoro quale snodo decisivo della sua evoluzione, e chiede pertanto non più slogan ma fatti. Qual è tuttavia la condizione affinché queste richieste possano concretamente spezzare la grigia, apparentemente inesorabile routine del potere? La risposta è semplice: occorre che il movimento abbandoni una volta per tutte il vizio della frammentarietà, dell’opinionismo, dello iato infantile tra vaghi pensieri e piccole azioni, ed assuma invece su di sé una visione generale dei problemi concreti. Un esempio su tutti: sappiamo bene che è in corso una delicatissima trattativa sulla misura e la destinazione dei risparmi del cuneo fiscale e contributivo per le imprese. Sappiamo che su questa trattativa si giocherà gran parte dei futuri rapporti tra il governo e la classe imprenditoriale, tra lo stato e il capitale. Ma allora è evidente che qualsiasi iniziativa contro la precarietà, per non ripiegare su se stessa, per non assumere una inutile piega identitaria, per risultare cioè realmente efficace dovrebbe essere immediatamente collegata agli scambi in corso sull’abbattimento del cuneo fiscale. Le imprese chiedono a gran voce questo abbattimento? Ebbene, che la contropartita sia quella dell’abrogazione della legge Biagi e della messa in discussione della disciplina del lavoro che scaturì dal pacchetto Treu. Questo è l’urgente mutamento concettuale che deve contraddistinguere la lotta alla precarietà del lavoro: non più incentivi di dubbia efficacia, non più pannicelli caldi per il movimento, ma precisi obblighi e divieti contrattuali aventi forza di legge. Insomma: liberare risorse va bene, ma al tempo stesso occorre mordere sull’impresa, per costringerla alla trasformazione strutturale, per indurla a compiere quel salto tecnico che in tanti invocano ma che di certo con le mere esortazioni mai si potrà realizzare. Tenetelo ben presente: sul piano economico si può fare, si può esigere uno scambio tra l’annunciata, drastica riduzione del cuneo e una altrettanto drastica riduzione della precarietà. L’importante, come ho già detto in passato, è che il finanziamento del cuneo avvenga attraverso la rinuncia ai piani di abbattimento del debito pubblico, anziché tramite ulteriori smantellamenti dello stato sociale.
Abbiamo dunque una strategia, un criterio per orientare la nostra azione futura, per agire sulla dinamica capitalistica, qui e adesso. Per quel che mi risulta, infatti, il problema non è mai stato quello di saper distinguere tra capitalisti “buoni” e “cattivi”. Il vero problema, di fronte alla meccanica impersonale e indifferente del capitale, è di saper incidere su di essa trasformando le pulsioni e le istanze sociali in logica del conflitto politico. Questa trasformazione si realizza associando fatti solo in apparenza slegati tra loro, delineando cioè sempre una visione generale della situazione concreta. L’obiettivo è senz’altro complesso, ed era per forza di cose fuori dalla portata del vecchio movimento. Alcuni segnali ci inducono a ritenere che il nuovo movimento sia in grado di perseguirlo.