Alcuni anni fa un noto storico francese definì Giovanni Paolo II un papa che portava il medioevo con la televisione.
Si tratta di una definizione che fotografa efficacemente gli avvenimenti dell’ultima settimana. Chi è passato per Roma in questi giorni se ne sarà reso conto: la forza mediatica di questo pontificato travalica il confine dell’oltretomba e ci fa assistere attoniti a una sorta di turismo funerario, sullo sfondo di stucchevoli cori da stadio, celebrato e finanche catalizzato dai mass media dai quali traspare dell’Italia l’immagine di una Repubblica confessionale a reti unificate. Un sia pur minimo ragionamento critico risulta pressoché assente nelle programmazioni e nelle fogliazioni fluviali dedicate in tutte le salse al pontificato. Un pensiero totalitario pervade il Paese mentre maree di persone, moltissime giovani, calano su San Pietro per celebrarlo. Parrebbe un indicatore dell’altra faccia della medaglia: il disorientamento esistenziale e la ricerca di senso rivolta a un sacro apparentemente disinibito e anticonformista (postmoderno…) come quello rappresentato dal papa soprattutto in veste di icona/logo massmediatico della forza della fede cattolica.
L’appiattimento intellettuale di queste settimane italiane è angosciante così come l’esagerata dilatazione del lutto, fin quasi a strapparlo alla sua dimensione profonda e a spenderlo prosaicamente in televisione in una corsa all’emulazione collettiva sulle cui reali motivazioni pare lecito interrogarsi.
Di fronte a questo spettacolo poco edificante forse sono utili alcune riflessioni critiche sia pure senza negare il ruolo che in qualche ambito della politica estera può aver rivestito l’azione papale (paesi dell’Est) e con rispetto umano per la morte di una persona prima ancora che di un leader religioso importante (semmai c’è da chiedersi quanto siano rispettose del lutto le agiografie stancamente ripetitive e i riflessi condizionati a raffica, da destra a sinistra, cui abbiamo tristemente assistito in questi giorni).
La prima riguarda la natura stessa della esposizione mediatica del Papa: quanto questa presenza costante ha avuto una funzione sostitutiva di altri gesti, più concreti di un appello dal balcone o di un concerto con i Papaboys, che sarebbero stati coerenti con una serie di enunciazioni?
Wojtyla si esercitava in appelli continui contro la guerra e contro il modello del consumismo. Eppure non ha fermato le guerre né l’avanzare del capitalismo selvaggio. I governanti che si richiamano alla religione cristiana e addirittura alla sua corrente cattolica si sono bellamente infischiati degli appelli del Papa, dalla guerra del Golfo del ’91 all’Afganistan all’Iraq, solo per citare i casi più visibili. Ma lo stesso pontefice non andò oltre la parola e l’immagine, mentre i pecoroni neri del suo gregge, dalla Polonia agli Stati Uniti, si armavano e partivano di guerra in guerra; né quando i medesimi interpreti del pensiero unico liberista nel formato cattolico si spendevano in politiche di privatizzazione e deregolamentazione economica e di imbalsamazione sociale per rendere l’esistenza delle persone più precaria ed esposta a malattia e morte (una cellula staminale dovrebbe valere almeno quanto un morto sul lavoro, un malato di cancro da smog o da disoccupazione, un bambino in bicicletta travolto da una utilitaria grande come un Tir nel centro storico di una città), badando naturalmente che a essere colpiti fossero principalmente i poveri e che i più abbienti potessero diventare nel frattempo un po’ più ricchi.
Il Papa non fece irruzione a un’assemblea dell’Organizzazione mondiale del commercio o del Fondo monetario internazionale; non comparve a Lampedusa tra gli immigrati sopravvissuti alla fuga della disperazione; non si precipitò alla Casa bianca o a Baghdad per scongiurare la carneficina; non mandò nemmeno un suo rappresentante a Genova dentro la scuola Diaz dove furono pestati dalla polizia anche giovani pacifisti cattolici. Non spese qualche parola sui cappellani militari, eppure don Milani quarant’anni prima… (per non menzionare le beatificazioni aberranti come quella del guerrafondaio paranazista croato Stepinac o, per rimanere in zona, il sostegno aperto all’indipendenza della cattolica Crozia che segnò uno spartiacque con le guerre nella ex Jugoslavia).
In altre parole, niente gesti sostanziali fuori dell’ordinario: sotto la vernice dell’anticoformismo… la fede nello spirito santo. Ma anche un intrecciarsi pauroso di iniziative tendenzialmente reazionarie: l’intransigenza contro l’ipotesi di sacerdozio femminile e di matrimonio per i sacerdoti (caldeggiata da ampi settori della Chiesa in vari Paesi europei); il diritto all’utilizzo di anticoncezionali (anche a tutela della salute per il rischio virale) e varie altre sfere tra le quali appare significativa la pretesa di influenzare le autorità civili in materia di procreazione (aborto terapeutico, concepimento in provetta eccetera) come se il punto di vista ecclesiastico su questioni strettamente connesse con le libertà individuali andasse imposto a tutti i cittadini e non fosse, al contrario, il comportamento cui dovrebbero volontariamente adeguarsi i credenti cattolici, se tali sono realmente e non solo quando conviene loro (come quelli che si sono inginocchiati davanti alla bara del Papa dopo aver fatte le guerre che lui non voleva). Una Chiesa libera di dettare le leggi al Parlamento è cosa ben diversa da una libera Chiesa in uno Stato libero.
(z. s.)