Oggi la politica di gestione del problema rifiuti è un indicatore preciso della qualità, della lucidità e della lungimiranza di un’amministrazione pubblica. Perciò è auspicabile che gli elettori ne tengano conto, negando il loro sostegno a chi dovesse ipotizzare – più o meno ambiguamente – soluzioni pericolose e costose come gli inceneritori, ora ribattezzati benevolmente “termovalorizzatori”. Vediamo perché la questione è dirimente alle urne. Si potrebbe cominciare dalle malattie e dalle morti di essere umani, tema funesto, spesso affrontato con leggerezza raggelante nel confronto pubblico sui rifiuti (così come sul traffico a motore o sulle attività industriali). Ma forse non è questo a preoccupare prevalentemente i seguaci di alcune scuole del pensiero “pragmatico-inceneritorista”. Allora, cominciamo dal resto, da alcuni aspetti tecnici; il lettore che ne avrà la pazienza troverà le informazioni (inquietanti) sui nuovi rischi sanitari (anche delle tecnologie più avanzate) in fondo a questo scritto.
Punto primo: che cosa e quanto bruciare. La linea di chi asseconda i pruriti della lobby dei costruttori di questi costosissimi impianti e dei potenziali gestori tende non solo a minimizzare i pericoli per la salute, ma a prospettare una soluzione “obbligata” e in ogni caso costretta alla compatibilità con la riduzione, il riciclo, il riuso dei materiali che finiscono nelle nostre pattumiere.
In realtà, al bruciatore basta eliminare la quota di rifiuto umido – che disturba la combustione – mentre gli fanno gola altre frazioni, particolarmente redditizie nella produzione di calore, come la plastica e la carta. In altre parole, l’inceneritore non può convivere con una raccolta differenziata seria, perché non avrebbe materia prima a sufficienza (salvo mettere in atto un disdicevole mercato importando rifiuti di altre province, un business che sarebbe pagato dai cittadini in termini di ulteriore contaminazione dell’ambiente). E qui cominciano di solito i balletti tecnocratici sul dimensionamento degli impianti. Per afferrare il concetto basta tenere presente che la plastica è il migliore combustibile per un inceneritore e ha il vantaggio di pesare poco: se ne possono produrre e bruciare montagne intere (generando grandi quantità di emissioni nocive), a tutto vantaggio dei gestori della mega-macchina i quali possono anche rispondere agli interessi di gruppi privati (si ricordi il temibile processo di liberalizzazione in atto sul fronte del’energia e di molti servizi di rilevanza pubblica).
È evidente che a costoro non conviene investire in sistemi virtuosi capaci di ridurre i rifiuti all’origine o in buone pratiche di raccolta e riciclaggio. Sarà sufficiente rendere la vita un po’ complicata ai cittadini, magari prevedendo prassi farraginose e irritanti per la differenziata. Ecco allora che si potrà, da un lato, imputare al popolo pigro le quote relativamente basse di rifiuti da riciclare e dall’altro propagandare la necessità di un inceneritore per sbarazzarsi di tutto quel fastidioso residuo tramite una scorciatoia ch aggrava il problema.
In realtà, laddove la raccolta differenziata è orientata al massimo risultato (oltre il 70%), utilizzando il metodo porta a porta che responsabilizza i cittadini ma senza disorientarli, la quantità di residuo non riciclabile è talmente bassa da risultare inferiore a quanto rimane negli inceneritori (sovradimensionati per ragioni economiche) alla conclusione del processo. Con una differenza fondamentale: che nel primo caso, per il poco che rimane da smaltire basterà uno stoccaggio controllato; nel secondo servirà una discarica per rifiuti pericolosi tossico-nocivi (il “termovalorizzatore” come fabbrica di veleni).
Secondo punto: la produzione di energia. Gli spensierati supporter delle ciminiere insistono su questo aspetto, al punto che hanno ribattezzato i bruciatori “termovalorizzatori”. L’impianto può servire a produrre elettricità o al teleriscaldamento.Qui abbiamo diversi problemi. Innanzitutto, va considerato che si bruciano materiali che per essere ricostruiti richiederanno l’utilizzo di quantità notevolmente maggiori di energia rispetto a quella recuperabile con l’inceneritore: una bottiglia di plastica può rendere “uno” se bruciata, costerà “cinque” per essere prodotta ex novo dal petrolio. Poi, va tenuto presente che il rendimento effettivo è assai limitato dalla quantità enorme di energia richiesta dal funzionamento dell’impianto.
Infine, c’è una caratteristica del contesto tutto italiano che, in spregio alle normative europee, considera i rifiuti alla stregua di una fonte rinnovabile di energia (come il sole o il vento) e perciò concede generosi contributi statali ai “termovalorizzatori” garantendone l’equilibrio economico (anzi, una redditività molto elevata). Quest’ultimo punto è destinato prima o poi a sparire e con esso crollerà gran parte della sostenibilità di gestione di questi impianti antieconomici che rappresentano, a guardar bene, uno degli ultimi sussulti di una cultura che si ostina a produrre e consumare in maniera insensata tralasciando gli effetti collaterali devastanti di questo modello.
Ritrovare un benessere sociale diffuso, sobrio e meno effimero significa anche affrontare la questione rifiuti da un’angolatura corretta: lavorare per la loro riduzione (imponendo all’industria meno imballaggi e comunque l’uso di monocomponenti facilmente riciclabili), per la diffusione di prassi di consumo consapevoli (per esempio, incentivare localmente il riuso del vetro e della plastica, la vendita sfusa di detersivi e altri prodotti), per la massima e più comoda raccolta differenziata, per il compostaggio domestico dell’umido. Un inceneritore ostacola tutto ciò, vincola per decenni le scelte politiche, costa molto ai contribuenti e – soprattutto – li avvelena.
Su quest’ultimo aspetto esistono evidenze empiriche ormai largamente richiamate in letteratura: tanto che a un recente convegno che seguivo come giornalista, un epidemiologo di un ente pubblico – sollecitato dalla platea – confermava l’esistenza di diversi studi stranieri che indicano un incremento della morbilità e della mortalità nelle popolazioni esposte alla contaminazione generata dagli inceneritori. Il giorno dopo ho contattato l’esperto, che lavora in una città dove il potere politico intende realizzare un simile impianto; gli ho chiesto qualche dettaglio a proposito dei rilievi sanitari cui accennava la sera prima, mi ha dato solo qualche delucidazione e si è raccomandato: “Tengo famiglia…”.
In effetti, si ha davvero l’impressione che il deficit di informazioni sui rischi sanitari sia parte del disegno di una lobby di potere trasversale che non di rado ritiene di poter utilizzare le stesse agenzie pubbliche preposte alla tutela della salute pubblica come strumenti di propaganda e di minimizzazione della percezione sociale di un pericolo che esiste eccome.
Ecco allora che a informare i cittadini sono prevalentemente i circuiti paralleli messi in atto dai comitati popolari o da qualche organizzazione ambientalista (non quelle che vendono consulenze agli inceneritoristi). In Italia, per esempio, può accadere che del rischio legato alle polveri ultrasottili parlino pochi scienziati, come il ricercatore Stefano Montanari cui ha offerto il “palcoscenico” Beppe Grillo. Montanari spiega che nel laboratorio sulle nanopatologie in cui lavora hanno verificato i danni derivanti dal particolato atmosferico di diametro inferiore ai 2.5 micrometri (fino al Pm0.1). “Queste polveri particolarmente sottili penetrano molto più in profondità negli organi del corpo umani, possono provocare il cancro, e riescono anche a entrare nel nucleo delle cellule dove sono in grado di innescare mutazioni genetiche”, spiega lo studioso riferendosi a una forma di inquinamento sulla quale, oggi, non esiste neppure una normativa: si controlla solo il particolato grossolano, detto Pm10, che in realtà è considerato dall’esperto assai meno dannoso perché agisce a livelli più superficiali.
Non bastasse, Montanari sottolinea che l’emissione di polveri ultrasottili aumenta in relazione alla temperatura di combustione: più alta sarà, più crescerà la contaminazione. “Vale a dire – spiega l’esperto – che, nel caso degli inceneritori, la tecnologia più avanzata offre un abbattimento delle Pm10 in cambio di un’impennata delle Pm2.5 e inferiori che non sono trattenute dai filtri: è un po’ come mettere in prigione un ladro di polli e lasciare libero un serial killer”.
A Montebelluna (Treviso), per esempio, tre anni fa, gli elettori hanno premiato l’attuale sindaco Laura Puppato che ha sconfitto gli avversari anche battendosi contro quello che veniva avveniristicamente definito “termovalorizzatore al plasma”.
Montanari, naturalmente, non è l’unico studioso a denunciare questi rischi e dunque a chiedere che si abbandoni la strada dell’incenerimento e che si prendano provvedimenti seri contro le altre fonti di contaminazione (come il traffico a motore). Il noto oncologo triestino Renzo Tomatis, già direttore del Centro europeo dei tumori di Lione, ha lanciato accorati appelli alle autorità pubbliche, così come i 400 medici che hanno sottoscritto un manifesto a Forlì (molte le iniziative simili anche altrove) o ancora l’epidemiologo genovese Valerio Gennaro che mette in guardia sulla facilità con cui si possono manipolare i dati per dimostrare che una popolazione è in salute, mentre in realtà molti cittadini sono a rischio. Basta, per esempio, utilizzare dati medi sull’inquinamento atmosferico evitando di soffermarsi su periodi e luoghi a elevata contaminazione. Come noto, è mediamente assai confortevole vivere con la testa nel forno e i piedi nel freezer.
[Zenone Sovilla ]
Amministrative, votiamo sui rifiuti…
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