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A chi serve davvero il lavoro precario

[ Tratto da Liberazione – www.liberazione.it ]

di Giorgio Cremaschi

Con il bastone e la carota. Così il Corriere della Sera affronta le posizioni di coloro che vorrebbero cancellare la Legge 30. Il bastone è l’affermazione del vicedirettore del quotidiano, che sostanzialmente accusa di contiguità al terrorismo tutti coloro che vogliono abrogare quella legge. La carota è il delizioso minuetto di buone parole con il quale Pietro Ichino ed altri difendono quella legge. Del resto le folgorazioni sulla via di Damasco della flessibilità si stanno diffondendo. Ultimo ad esserne colpito è il sindaco di Roma sulle colonne de La Stampa. Da tutti costoro la prima accusa che viene rivolta a chi vuole cancellare la legislazione che in questi anni ha reso possibili in Italia le forme più strampalate di lavoro precario, è di essere ideologico. Se infatti si fosse pragmatici, si scoprirebbe che la precarietà in fondo è inevitabile, che le leggi in questione l’hanno solo regolata, che semmai si tratta di aggiustare qualche piccola stortura e, soprattutto, di garantire qualche tutela sociale in più ai precari.

Questo modo di pensare non è nuovo, anzi, è quello che va per la maggiore, al punto che nel passato è stato definito come pensiero unico. Secondo questo punto di vista, il mercato, la flessibilità, la globalizzazione, sono eventi pressoché naturali, come una volta il vento o la pioggia, e per questo si possono solo limitare i danni causati dai loro eccessi.

Lasciamo perdere l’insopportabile intolleranza che sta alla base del modo di vedere di chi considera come ideologici tutti coloro che non sono d’accordo con lui. E’ chiaro che in questo modo di pensare c’è già un elemento di sopraffazione. La domanda che però poniamo a tutti coloro che considerano inevitabili flessibilità e precarietà è: ma esse a cosa servono?

Qui infatti c’è una contraddizione di fondo. Il succedersi di lavoro precario sarebbe, almeno tecnicamente, giustificato se ci trovassimo di fronte a un tale continuo sconvolgimento dell’organizzazione del lavoro, da impedire ogni forma di continuità dell’occupazione. Invece stiamo discutendo di persone che restano precarie nello stesso posto di lavoro, o nella stessa mansione, per anni e anni. Persone, cioè, che potrebbero essere tranquillamente assunte con contratto di lavoro a tempo indeterminato, per fare quello che fanno.

Nella pubblica amministrazione, nella sanità, nella scuola, oggi gran parte delle attività fondamentali sono condotte da personale precario da molti anni. Nel privato si stanno consolidando contratti a termine, lavoro interinale, contratti di collaborazione che durano una vita. Insomma, il contratto a termine, come gli esami, non finisce mai.

Su queste pagine Luigi Cavallaro ci ha poi ricordato che non è neppure vero che tutto questo sia giustificato dalla necessità di apprendere. Spesso i lavoratori ne sanno molto di più di quello che serve sul lavoro. Se c’è un deficit nella formazione, questo è prima di tutto dal lato delle imprese, che utilizzano solo una piccola parte delle competenze del lavoratore.

Perché allora il lavoro precario si diffonde? Perché le imprese preferiscono tenere anni e anni le persone in quella condizione? Per la semplice ragione che, così, quelle lavoratici e quei lavoratori costano molto meno. Vengono pagati meno e con meno contributi, sono disponibili a qualsiasi condizione e orario di lavoro, hanno meno pretese perché hanno paura, e poi, soprattutto, si addossano ogni rischio: qualcosa va male? A casa.

Sarebbe ora di smetterla di raccontarci la favola della modernità del lavoro flessibile. Esso è semplicemente uno strumento per far lavorare di più la gente, con più bassa retribuzione. E’ uno strumento di sfruttamento, diremmo noi ideologici. Sono i fatti, la quantità del salario, le condizioni di vita, il malessere sociale profondo, a dimostrare che la precarietà viene utilizzata semplicemente perché conviene.

Alcuni collaboratori della rivista on-line La Voce, hanno ben compreso questo dato della realtà, e hanno proposto di tagliare la testa al toro. Siccome sappiamo tutti che la flessibilità del lavoro è solo un lungo periodo di prova, nel quale si cercano di piallare personalità e diritti del lavoratore, tanto vale ridurne la durata rendendone esplicite le finalità. Così viene proposto una sorta di Cpe (il contratto precario contro cui si è ribellata la Francia) all’italiana. Si propone di ridurre e accorpare le infinite forme di lavoro precario e flessibile della legislazione attuale in un periodo di prova di durata media, durante il quale sia formalmente concessa alle imprese la mano libera nei licenziamenti.

E’ la solita vecchia logica. Visto che il male si estende, legalizziamolo in parte. Così, si sostiene, saranno incentivati tutti i comportamenti virtuosi. E’ lo stesso ragionamento che fa Berlusconi sul fisco: abbassiamo le tasse, così tutti le pagheranno. O quello che da tempo svolge Pietro Ichino sui diritti del lavoro: abbassiamo il loro livello medio, così il lavoro nero emergerà.

Senonché in Italia è vero l’esatto contrario. Ogni volta che si abbassano le regole e le garanzie, non c’è una maggiore legalità media, ma, al contrario, aumenta l’evasione da qualsiasi vincolo. La riduzione delle tasse si è accompagnata alla crescita dell’evasione fiscale e contributiva, che oggi fa mancare allo stato cento miliardi di euro all’anno. Le privatizzazioni hanno prodotto monopoli e rendite sfacciate. Con il Pacchetto Treu e con la Legge 30 non è calato di una sola unità il lavoro nero, anzi.

La verità è che chi crede nell’inevitabilità delle leggi del mercato a volte dimentica di applicarle alle proprie proposte. Se si riducono i diritti di chi è più tutelato, non si fa salire chi sta più in basso, ma lo si fa sprofondare ancor di più. Prima di tutte queste moderne leggi sulla flessibilità, quando ancora il lavoro godeva di diritti incontestati, il lavoro nero al Sud valeva 500 euro al mese, oggi ne vale 300. Se nelle grandi aziende pubbliche e private tutti i nuovi posti di lavoro sono coperti da persone sottopagate e con la minaccia continua del licenziamento, è tutto il lavoro che viene svalutato, quello legale e quello illegale. E forse non è casuale che il nostro paese, che ha visto la più intensa e veloce estensione del lavoro precario, oggi registri la dinamica salariale peggiore dell’Occidente.

E’ vero allora che, rispetto alle posizioni del Corriere della Sera, il nostro è un punto di vista alternativo. Esso infatti parte dalla constatazione che continuare a pretendere flessibilità in un mercato del lavoro già troppo flessibile, significa insistere nel voler continuare quelle politiche che hanno portato l’Italia all’attuale stagnazione e crisi sociale. Perché allora non provare, magari pragmaticamente, una via diversa? Che faccia del rafforzamento dei diritti e dell’aumento dei salari la leva per far crescere l’economia?

Di tutte le ricette che girano sui giornali, questa è l’unica che negli ultimi vent’anni non è mai stata provata. Chi è ideologico, allora, chi la sostiene o chi la rifiuta a priori?

[Tratto da Liberazione – www.liberazione.it – 16 maggio 2006]

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