Col d.lgs. 8.4.2003, n. 66, emanato in attuazione delle direttive Comunitarie 93/104 e 2000/34, sono state introdotte penetranti modifiche su alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro.
Il Decreto, che si applica a tutti i settori di attività, sia pubblici che privati – salvo alcune eccezioni (personale di volo e marittimo, alcuni settori della pubblica amministrazione, previa individuazione ministeriale di esigenze oggettive che ne giustifichino l’esenzione, personale della scuola) – interviene in particolare sulla definizione e durata dell’orario di lavoro e, di riflesso, sulla nozione e disciplina del lavoro straordinario, e affronta altresì alcuni aspetti relativi alla disciplina del lavoro notturno e a turni, dei riposi e delle ferie. In questa sede mi limiterò ad alcune considerazioni inerenti le novità inerenti l’orario di lavoro, evidenziando sin d’ora come le stesse si collochino nell’attuale tendenza – non solo caratteristica della politica interna bensì ampiamente diffusa in ambito comunitario – verso una esasperata liberalizzazione del mercato di lavoro, in cui dietro il dogma della “flessibilità” si nascondono pesanti aggressioni ai diritti dei prestatori di lavoro, spesso conquistati con dure lotte del mondo operaio. E così, se a livello interno le novità in tema di orario di lavoro debbono essere lette in parallelo con quelle contenute nel d.lgs. n. 276/03, si vedano in particolare le nuove tipologie contrattuali in materia di orario ridotto, modulato o flessibile, nell’ambito europeo le direttive comunitarie di cui il decreto 66 costituisce attuazione rientrano a pieno titolo in quella omologazione al ribasso della legislazione del lavoro che caratterizza l’attuale politica socio-economica comunitaria (si veda in proposito l’illuminante articolo “La direttiva Bolkstein” su Lotta di classe – settembre 2005).
Prima di esaminare le novità del decreto 66, è utile ricordare che nella disciplina previgente in materia di orario di lavoro (r.d.l. 692/1923) erano previsti dei limiti tanto alla giornata lavorativa, la cui durata “massima normale” era pari ad 8 ore, cui poteva aggiungersi uno “straordinario” che non superasse le 2 ore al giorno, quanto alla settimana di lavoro – 48 ore normali cui potevano aggiungersi 12 ore settimanali di straordinario.
Questi limiti, secondo consolidata giurisprudenza, erano ritenuti completamente autonomi, nel senso che la prestazione quotidiana eccedente le otto ore comportava la maggiorazione per il lavoro straordinario anche se il limite dell’orario settimanale non fosse stato complessivamente superato per effetto della prestazione di durata più breve effettuata negli altri giorni della settimana lavorativa.
La nuova disciplina sull’orario di lavoro si limita invece a fissare in 40 ore settimanali l’orario normale di lavoro, attribuendo alla contrattazione collettiva la facoltà di stabilire una durata inferiore e di “riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore a un anno”.
In buona sostanza, viene cancellata la leggendaria conquista dello sciopero del 1° maggio 1886 a Chicago, sancendo la definitiva scomparsa dell’orario massimo giornaliero di otto ore a favore di una nozione di media oraria, stabilita in via legale in 40 ore settimanali, ma che per effetto della contrattazione collettiva può anche essere stabilita su periodi plurisettimanali.
Quali sono per i lavoratori gli effetti di una tale innovazione – che si colloca evidentemente nella medesima logica che ha ispirato il concetto di banca delle ore, in cui il datore di lavoro può ottimizzare l’utilizzo della forza lavoro alle proprie dipendenze, concentrando le prestazioni nei periodi di maggiore necessità e riducendone la quantità nei rimanenti periodi- ?
Possiamo individuare due ambiti di incidenza di tale nuova disciplina, che riguardano da un lato la disciplina del lavoro straordinario, e dall’altro i riflessi che questa liberalizzazione dell’orario di lavoro comportano sul diritto al riposo e sulla programmazione del proprio tempo libero.
Con riguardo al primo aspetto, rileviamo che in caso di assenza di contratti collettivi, l’orario normale come detto è fissato in 40 ore settimanali. Dal che si desume che verrà considerata straordinaria solo la prestazione resa oltre tale limite settimanale, essendo ormai superato il concetto di straordinario su base giornaliera.
Quando invece intervenga un contratto collettivo a definire l’orario medio su base plurisettimanale, sarà considerata straordinaria solo la prestazione che superi la media oraria così come individuata a livello collettivo. L’ulteriore inaccettabile conseguenza è che il lavoratore non può mai sapere, nel momento in cui lavora oltre l’orario solitamente svolto, se sta prestando lavoro ordinario ovvero lavoro che causa il superamento della media e che quindi, solo a consuntivo, risulterà lavoro straordinario. Cosicchè resta completamente vanificato il limite massimo fissato dalla disciplina in esame in 250 ore annue di prestazioni di lavoro straordinario, dal momento che il lavoratore non è in grado di sapere – se non a posteriori – quando le suddette prestazioni cominciano.
Sotto il secondo profilo di incidenza, è di tutta evidenza come la cancellazione del tetto legale alla durata della prestazione lavorativa giornaliera comporti una notevole compressione dello spazio temporale entro cui il lavoratore dispone liberamente del proprio tempo di vita.
Se infatti per effetto del limite massimo alla giornata di lavoro (8+2 ore), era legittimo opporre un netto rifiuto alla richiesta aziendale di effettuare ulteriori ore di straordinario, adesso ci troviamo di fronte alla massima flessibilizzazione dell’orario all’interno della settimana, di cui il datore di lavoro può liberamente e unilateralmente disporre, con la conseguenza che al lavoratore non è dato sapere anticipatamente quanto dura la sua giornata di lavoro e in quali giorni lavorerà, così restandogli preclusa la possibilità di liberamente disporre del proprio tempo libero.
In tale ottica, il limite che ci consegna il decreto 66 di “almeno undici ore” d’intervallo tra le prestazioni lavorative svolte in due giornate consecutive non rappresenta certo un’adeguata tutela a tale inaccettabile invasione nel tempo libero: il risultato pratico infatti è che il limite massimo della giornata lavorativa è stato portato da 10 (8+2) a ben 13 ore (tutto ciò in nome di una Direttiva la cui finalità precipua dovrebbe riguardare la tutela della salute!).
Sul piano strettamente giuridico, la nuova disciplina sull’orario di lavoro risulta comunque attaccabile poiché presenta molteplici dubbi di costituzionalità.
Non solo non sembra adeguatamente rispettare l’art. 36 della Carta Costituzionale, laddove prevede espressamente che “la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge”, ma si pone in netto contrasto con la c.d. “clausola di non regresso” prevista nella direttiva comunitaria, che impone agli stati nazionali, al momento dell’attuazione della direttiva, di non ridurre il livello di tutela preesistente nell’ordinamento interno, costituendo un indubbio arretramento del livello generale di protezione dei lavoratori.
Ma soprattutto deve esserne denunciata l’aggressione alla disponibilità del tempo libero e che può essere contrastata ribadendo il carattere essenziale che a tal fine assume la predeterminazione dell’orario di lavoro, inteso non solo nella sua specificazione quantitativa ma anche nella sua collocazione temporale. In altri termini, tanto a livello individuale che a livello collettivo occorre esigere che l’orario di lavoro sia predeterminato (quante e quali ore al giorno) e che possa essere modificato solo previo accordo esplicito di entrambe le parti del rapporto di lavoro.
(Melissa Mariani – avvocato del lavoro – Milano)
Articolo tratto da www.lottadiclasse.it organo dell’Unione sindacale italiana (Usi).