La crisi tra le cancellerie occidentali (la cui divisione sembra funzionale al consueto gioco dello sbirro buono e di quello cattivo con il trio UE a giocare il primo e l’Amministrazione americana il secondo) sta portando la temperatura interna del grande paese asiatico molto vicina a quella dei forni industriali. Il probabile deferimento all’ONU da parte dell’Agenzia per il controllo della non proliferazione nucleare, diretta da quell’ineffabile egiziano su libro paga USA che risponde al nome di El Baradei, sia pure in assenza di prove certe sulla volontà iraniana di dotarsi di armi nucleari, sarà il prossimo passo di una tragedia il cui copione sembra sinistramente ricalcare quello andato in scena tra il 1991 e il 2003 sull’altra riva dello Shatt-el -Arab. Per ora Cina e Russia si oppongono alla decisa accelerazione dello scontro con l’Iran che le cancellerie occidentali ricercano con devozione degna di miglior causa, Germania, Francia e Regno Unito hanno infine gettato la maschera adeguandosi alle posizioni della Presidenza Bush che, lungi dall’abbandonare il terreno di gioco mediorientale, preme per “terminare il lavoro” iniziato in Iraq rovesciando i governi siriano e iraniano e imponendo infine la propria pace nell’area. Il fulcro di questo progetto continua ad essere lo stato israeliano i cui rapporti con i vicini musulmani dovrebbero essere normalizzati con la costituzione di uno stato bantustan palestinese a dimostrare la buona volontà di Gerusalemme nei confronti dei vicini, e con la creazione di una zona di libero scambio nell’area che sancirebbe la colonizzazione delle economie dell’area da parte delle multinazionali occidentali. È chiaro che un progetto di questa portata necessita di tre condizioni.
Nascita di un bantustan palestinese o annessione della Cisgiordania?
La prima è l’esistenza di una leadership israeliana disposta a fare concessioni reali ai palestinesi ed eventualmente scontrarsi con i settori più oltranzisti della propria popolazione. In questo quadro la conversione “pacifista” di Sharon e la fondazione di un partito come Kadima, il cui unico scopo è proprio la gestione di simile processo si spiegano. D’altra parte la possibilità di una vittoria di Netanyahu e di quel che resta del Likud alle prossime elezioni in Israele sarebbe un colpo formidabile a questo progetto, non solo per la precisa volontà annessionistica di questo schieramento, ma anche perché la politica estera del Likud è storicamente improntata alla diffidenza se non allo scontro aperto con i vicini arabi, e ai rapporti di amicizia sia aperti che nascosti con i paesi non arabi dell’area; dall’Etiopia ai movimenti curdi, dalla Turchia all’Iran. Questa, in fondo è stata la politica israeliana dal 1948 fino agli anni Novanta dello scorso secolo. Solo il processo di Oslo e la successiva conversione statunitense al progetto del “Grande Medio Oriente” hanno mutato l’orientamento di un vasto settore del ceto politico di Israele, da Peres a Sharon non a caso a braccetto nella fondazione di Kadima. La vittoria di questo partito, messa in discussione dalla morte cerebrale di Sharon, chiuderebbe la partita con la pace tra israeliani ed arabi e con l’avvio della campagna di annientamento dell’Iran, unica potenza ostile rimasta nell’area, e chiuderebbe la Turchia nell’angolo costringendola a integrarsi nel mercato unico euroamericano o sotto le bandiere dell’Unione Europea o sotto quelle della futura Unione Mediorientale sotto protezione americana. Il Likud se vincesse le elezioni cercherebbe, invece di far saltare il progetto almeno fino all’annessione di tutta la Cisgiordania, e per farlo sarebbe disposto ad alleggerire la pressione sull’Iran e a cercarne sotto banco l’alleanza in funzione anti araba. D’altra parte Israele ha utilizzato Teheran in questo senso anche dopo la caduta degli ayatollah, dal momento che il primo sostenitore dell’Iran durante gli otto anni di guerra contro l’Iraq di Saddam si trovava proprio a Tel Aviv.
Gli Usa mirano alla fine dei regimi nazionalisti (e protezionisti) dell’area
La seconda (che va a braccetto con la prima) è la fine dei regimi nazionalisti sorti nel Medio Oriente tra gli anni Cinquanta e i primi anni Ottanta dello scorso secolo; Siria ed Iran, dopo l’autopensionamento del colonnello Gheddafi, ormai beniamino di Washington e Londra, sono gli ultimi esemplari rimasti sulla piazza. L’Islam in questo non c’entra assolutamente niente dal momento che i due regimi sono da questo punto di vista assolutamente differenti: Teheran ha assunto una posizione di nazionalismo religioso che fa dello sciismo un collante forte del paese e un mezzo di controllo della popolazione, Damasco è guidata da un clan alawita, cioè da una delle sette più laiche e modernizzanti dell’Islam, e da un partito come il Baath ispirato a valori lontani da quelli religiosi. Il comune denominatore dei due paesi e dei loro regimi è quello del nazionalismo politico e, soprattutto, economico, per cui lo stato in Siria e le congregazioni caritatevoli in Iran controllano tutte le attività produttive, bancarie e finanziarie dei due paesi.
In altre parole gli ayatollah e i baatisti siriani sono un ostacolo ai progetti di Washington e Bruxelles perché la loro struttura fortemente autocentrata non prevede la possibilità per le multinazionali occidentali di impadronirsi delle economie locali e dei beni di questi paesi. Da questo punto di vista il familismo amorale degli emiri o il soffocante paternalismo dei presidenti a vita alla Mubarak è del tutto accettabile (per ora) per le democrazie euroamericane, dal momento che questi paesi sono gestiti con le modalità del liberismo dei paesi del sud del mondo, consistente nella cessione delle economie interne al nord del mondo in cambio di una mancia sostanziosa ai dominanti del posto.
Il possibile ruolo di Hamas
La terza è la costituzione di una leadership palestinese insieme disposta a stare al gioco cercando di ottenere quanto più possibile all’interno del quadro dato, e al contempo credibile per il proprio popolo. La vittoria di Hamas, accolta sostanzialmente bene dalla cancellerie occidentali e festeggiata dai palestinesi come fine del dominio di Al Fatah, percepita allo stesso tempo come corrotta, venduta agli israeliani e incapace di governare, rappresenta la concreta realizzazione di questa possibilità. È opinione dello scrivente che, dopo le obbligatorie schermaglie iniziali, i rapporti tra Isreale, Hamas e l’Occidente si ammorbidiranno e gli ex estremisti concorreranno a normalizzare la Palestina. D’altra parte i legami tra Hamas e l’Iran sono un’invenzione della stampa occidentale più oltranzista e servono più a mettere in cattiva luce l’Iran che non Hamas. I legami con la Siria sono invece reali ma rispondono a un problema di realpolitik e non a un reciproco riconoscimento ideologico, visto che i Fratelli Musulmani siriani – organizzazione sorella di Hamas – vengono regolarmente repressi in modo durissimo da Damasco. Nei rapporti di interesse quando l’interesse di uno viene meno, è probabile che l’altro venga abbandonato senza nessun rimpianto. In fondo Hamas e la Siria si sono serviti per un decennio l’uno dell’altro senza costruire nessun significativo rapporto, la fine delle loro relazioni non stupirebbe nessuno se non la rincretinita opinione pubblica euroamericana.
Armadi-Nejad: integralista religioso ma fautore della separazione tra potere politico e clero
L’approssimarsi della realizzazione della prima e della terza condizione hanno, ovviamente, reso molto nervosi gli ambienti governativi siriani e iraniani. Di Damasco ci siamo recentemente occupati in occasione della cacciata delle truppe di Assad dal Libano e delle fughe in occidente di esponenti di primo piano del regime. Per quanto riguarda Teheran si deve segnalare che la nuova leadership di Mahmud Armadi-Nejad ha complicato ulteriormente i giochi. Il nuovo presidente è infatti un’integralista sciita quietista sul piano politico, nonché di estrazione popolare. In altre parole è completamente estraneo all’establishment clericale che guida l’Iran dalla rivoluzione a oggi. Sul piano religioso è integralista, ossia si batte per un’interpretazione rigorosa del dettato coranico e della giurisprudenza islamica; egli è però quietista sul piano politico, ossia è contrario all’eccessivo coinvolgimento del clero in politica e non sembra accettare di buon grado la tutela di fatto che la sua carica subisce da parte della Guida Suprema, dell’Assemblea degli esperti e del Consiglio per i pareri di conformità, delle istituzioni clericali che decidono delle candidature alle elezioni, della sorte delle leggi e dei decreti presidenziali e della moralità dello stesso Presidente. Inoltre Armadi-Nejad è di estrazione popolare ed ha la propria base tra i lavoratori delle corporazioni industriali del paese, tra i disoccupati, la piccola borghesia impiegata nello stato e tra i commercianti del bazar. La giovane borghesia che appoggiava i riformisti di Khatami si è ritirata dietro le quinte, ma il vecchio establishment conservatore che continua a controllare l’economia del paese e che ha già fatto fallire l’esperimento riformista di Khatami sta lavorando ai fianchi l’intruso a palazzo.
Le affermazioni guerrafondaie del Presidente iraniano sono da inquadrare in questo contesto, nel quale si sente accerchiato sia dall’offensiva euroamericana, sia dal tentativo di riscossa dei conservatori del paese. Questi ultimi, oltretutto, hanno da tempo messo sul piatto dello scontro interno la loro volontà di arrivare a un accordo con gli USA e con l’Europa, probabilmente cedendo sull’apertura dei mercati e sull’accesso non tanto al petrolio quanto al gas da parte degli euroamericani.
Il controllo dei conservatori sull’economia sta impedendo ad Ahmadi-Nejad di realizzare il suo programma di distribuzione di parte della ricchezza nazionale ai ceti popolari e a quelli medi statali rovinati dalla corsa internazionale dei prezzi, così il presidente è stato costretto a buttare sul piano internazionale la sua credibilità e la sua popolarità. Da questo le battute su Israele e sugli Stati Uniti e la volontà di non sottomissione dimostrata sul terreno della questione concernente l’arricchimento dell’uranio e, in prospettiva, l’armamento nucleare.
I nodi che portano alla guerra
Se questo è il contesto in cui matura la situazione di quasi guerra tra l’occidente e l’Iran, ben altri sullo sfondo sono i nodi irrisolti che portano verso la parola alle armi in questo quadrante del mondo. I commentatori più critici hanno puntato il dito sulla volontà di Teheran di prezzare il proprio petrolio e il proprio gas in euro, ma questo è in realtà un falso problema, dal momento che i paesi europei non hanno reagito positivamente alla notizia e che Teheran rischierebbe di restare senza compratori per un periodo abbastanza lungo di tempo. In realtà l’allineamento della triade europea alla posizioni di Washington riflette la sostanziale sudditanza dell’UE agli USA e la loro integrazione nel mercato americano. In questo contesto nessuna delle cancellerie europee si sogna di usare l’euro contro il dollaro e non incoraggia certo i regimi anti americani dell’area a inoltrarsi su questa strada. D’altra parte già Khatami aveva tentato di giocare la carta Europa versus USA aprendo la propria economia agli scambi con Italia, Germania, Regno Unito e Francia. Come tutti sappiamo gli andò male e nei paesi europei un settore tutt’altro che secondario dei poteri forti bloccò l’operazione riallineando i paesi europei alle volontà americane. Le pagliacciate di Ferrara, ex agente della CIA e solerte fustigatore di ogni operazione economica indipendente degli europei in paesi sgraditi a Washington sono solo la punta dell’iceberg di un’operazione che ha annullato un decennio di rapporti politico-economici tra i paesi europei e Teheran.
La possibile alleanza economica con la Cina nel mirino di Washington
Il vero problema geopolitico che Washington vede profilarsi all’orizzonte è la costituzione di una sorta di Mercato Comune dell’energia in Asia. I progetti di gasdotto sottomarino tra l’Iran e l’India, i rapporti sempre più stretti tra Cina e Iran per quanto riguarda la commercializzazione del gas e del petrolio persiani, gli investimenti dei due colossi asiatici negli impianti di Teheran e, last but not the least, i rapporti Iran-Russia sul terreno delle tecnologie nucleari, fanno intravedere uno scenario di rapporti economici sempre più stretti tra i paesi asiatici con la possibilità di costituzione di un mercato unificato se non altro sul terreno energetico e su quello delle tecnologie avanzate.
Va da se che questa è la più terribile delle ipotesi sia per Washington che per Bruxelles, dal momento che un mercato protetto nell’area economicamente più interessante del pianeta costituirebbe un serio limite all’espansione degli interessi delle multinazionali euroamericane; inoltre la particolare posizione del capitalismo americano, basata sul rastrellamento di capitale mobile in tutto il mondo, necessita che non si costituiscano aree economiche protette e relazioni commerciali significative privilegiate che li escludano. Il fondo dello scontro che oggi sta avvenendo in Iran e che coinvolge l’intera area mediorientale è questo e riguarda direttamente il futuro dell’accumulazione capitalistica sul pianeta e dell’esistenza o meno di un centro che ne faccia da propulsore. Come già per la guerra all’Iraq, il vero obiettivo di Washington è Pechino, o meglio, la possibilità di un’alleanza economica che coinvolga l’Asia e la Russia e che determini una parziale esclusione degli USA dalla gestione delle ricchezze finanziarie ed energetiche planetarie. Ed è con questo livello di problemi che ci tocca confrontarci.
Giacomo Catrame – Articolo tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova, numero 5 del 12 febbraio 2006, Anno 86.