Quello che è successo è successo. La domanda non è più se le forze americane si ritireranno, ma quando – e a quale coso. A tale rispetto, così come in tanti altri casi, l’ovvio parallelo che si può fare nel caso dell’Iraq è quello con il Vietnam.
Confrontato da un’esercito demoralizzato sul campo di battaglie e da un’opposizione crescente a casa, nel 1969 l’amministrazione Nixon cominciò a ritirare la maggior parte delle sue truppe per facilitare quello che chiamava la “Vietnamizzazione” del paese. Il resto delle forze americane furono estratte quando il segretario di Stato Henry Kissinger negoziò un “accordo di pace” con Hanoi. Mentre le truppe si ritirarono, lasciarono la maggior parte del loro equipaggiamento all’esercito della Repubblica del Vietnam del Sud – che solo due anni più tardi, dopo la caduta di Saigon, dovette abbandonarlo ai comunisti.
Chiaramento questo non è un modello piacevole da seguire, ma non vi è nessuna altra alternativa in vista.
Mentre il Vietnam del Nord aveva almeno un governo con il quale era possibile organizzare un cessate il fuoco, in Iraq l’avversario consiste in gruppi che operano nell’ombra di terroristi che non hanno un’organizzazione o un’autorità di comando centralizzata. E mentre nei primi anni 70 l’equipaggiamento militare classico era ancora relativamente prevalente e consistente, le forze armate di oggi sono il prodotto di una rivoluzione tecnologica nel modo di condurre la guerra. Se tale rivoluzione ha contribuito ad altro oltre al debito nazionale americano è una questione aperta al dibattito. Non vi è però dubbio, tuttavia, che le nuove armi sono meno numerose e sono talmente care che anche la potenza più ricca del mondo può permettersi di metterne in campo solo una manciata.
Di conseguenza, abbandonare l’equipaggiamento o lasciarlo agli iracheni, come è stato fatto in Vietnam, è semplicemente un’opzione impraticabile. E anche se lo fosse, il nuovo esercito Iracheno è secondo tutti i punti di vista più debole, meno esperto, meno coeso e meno leale al suo governo di quanto lo era l’esercito sud vietnamita. Per quanto siano buone le intenzioni e gli obiettivi, Washington farebbe meglio a questo punto a consegnare le sue armi direttamente a Abu Musab al-Zarqawi.
Chiaramente, allora, la cosa da fare è dimenticarsi di salvare la faccia e condurre una ritirata classica.
Lasciando le loro basi o distruggendole se necessario, le forze americane dovranno ripiegare fino a Baghdad. Da Baghdad dovranno raggiungere il porto meridionale di Bassora, e da lì raggiungere il Kuwait, da dove l’intera malcondotta avventura è iniziata. Quando il Primo Ministro Ehud Barak fece ritirare le truppe israeliane dal Libano nel 2000, l’esercito fu in grado di effettuare tale operazione in una sola notte senza un solo caduto. Tutto ciò, tuttavia, non è quello che succederà in Iraq.
Non solo le forze americane sono forse 30 volte più grandi, ma inoltre è più vasto il paese che dovranno attraversare. Un ritiro richiederà probabilmente parecchi mesi e comporterà un numero consistente di perdite. Mentre il ripiegamento procede, l’Iraq cadrà quasi sicuramente in una guerra civile a tutto campo dalla quale il paese impiegherà parecchio tempo prima di riemergere – se è quando – ne sarà capace. Tutto ciò è inevitabile e accadrà sia che piaccia o non piaccia a George W. Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Condoleezza Rice.
Devastato da due guerre contro gli Stati Uniti e dieci anni di sanzioni economiche, passeranno decine di anni prima che l’Iraq possa rappresentare di nuovo una minaccia per i sui vicini. Tuttavia un ritiro americano completo dall’area del Golfo non è un’opzione; la regione, con le sue vaste riserve di petrolio, è semplicemente troppo importante per contemplare tale opzione. Una presenza militare continua, fatta di forze di aria e mare ed in numero minore di terra, sarà comunque necessaria.
Innanzitutto, tale presenza sarà necessaria per contrastare l’Iran, che per due decenni ha finora guardato agli Stati Uniti come “Il Grande Satana”. Tehran emergerà sicuramente come il più grande vincitore dalla guerra – un vincitore che in un futuro non troppo distante probabilmente aggiungere delle testate nucleari ai missili che già possiede. Nel passato Tehran ha spesso minacciato gli Stati del Golfo. Adesso che l’Iraq è stato messo K.O., è difficile prevedere come qualcun altro eccetto gli Stati Uniti possa proteggere gli Stati del Golfo, ed il loro petrolio, dalle grinfie dei mullah.
Una continua presenza militare americana sarà inoltre necessaria, in quanto un Iraq diviso, caotico e senza governo diventerà probabilmente un vero e proprio nido di calabroni. Da questo nido centinaia di mini-Zarqawi si diffonderanno per tutto il Medio Oriente, conducendo atti di sabotaggio e cercando di rovesciare governi nel nome di Allah’s .
A parte gli Stati del Golfo, il paese più vulnerabile è la Giordania, come evidenziato dai recenti attacchi ad Amman. Tuttavia la Turchia, l’Egitto, e in misura minore, Israele risentiranno potenzialmente l’impatto di tale eventi. Alcuni di questi paesi, in particolare la Giordania, avranno bisogno dell’assistenza degli USA.
Mantenere un presenza militare americana, per non menzionare il ripiegamento delle forze dall’Iraq, comporterà una miriade di problemi, militari e politici. Tale sforzo, si spera, sarà guidato da una squadra differente – e più competente – di quella che è attualmente in carica alla Casa Bianca e al Pentagono.
Per aver ingannato il popolo americano, e per aver lanciato la guerra più folle da quando l’imperatore Augusto nel 9 AC mandò le sue legioni in Germania e le perse, Bush merita di essere messo in stato di impeachment e, una volta fatto rimuovere, deve essere sotto processo con il resto dell’enturage presidenziale. Se condannati, questi uomini avranno tutto il tempo necessario per meditare sui loro peccati.
Martin van Creveld, un professore di storia militare presso la Hebrew University, è l’autore di “La Trasformazione della Guerra” (Free Press, 1991). E’ l’unico autore non-americano che compare nella lista degli autori da leggere per gli ufficiali compilata dall’Esercito Americano.
Note:
traduzione di Tom Corradini www.tomcorradini.it)
Articolo originale http://www.forward.com/articles/6936
31 gennaio 2006
[* Tratto da www.peacelink.it ]