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Anarchismo e diritto

di Pier Francesco Zarcone *

Fra le caratteristiche dei comunisti anarchici, e non secondaria, c’è la capacità di affrontare – in coerenza con i principi originari dell’anarchismo di classe da Bakunin in poi – i problemi concreti posti dal mondo in cui si vive (con i suoi ininterrotti dinamismi e le sue progressive mutazioni) mediante la spregiudicatezza dei liberi pensatori, che non hanno paura di apportare le necessarie specificazioni e, se del caso, correzioni di rotta. Correzioni che non riguardano i principi in sé, bensì le loro applicazioni ed interpretazioni. I principi, infatti, sono come le stelle del cielo: punti stabili che consentono di navigare e di giungere là dove si vuole o si deve andare. Ed inoltre sono – sotto un certo aspetto – come il sabato ebraico che un antico rabbi di Nazareth definì “fatto per l’uomo”, e non viceversa.

La “galassia” anarchica nel mondo da molto tempo versa in una situazione particolare che schematizzando e semplificando – pur con tutti i limiti che ciò implica – può dirsi composta dai comunisti anarchici e dagli altri. Quest’ultima generica componente ha ormai abbandonato, a livello di orizzonte e di azione (ma non sempre a parole), la reale prospettiva rivoluzionaria, quella che fece dell’anarchismo delle origini la componente socialista antiautoritaria della Iª Internazionale. E la rivoluzione opera in modo indissolubilmente binario: da un lato distrugge l’assetto contro cui combatte; da un altro lato costruisce la nuova società, e con essa l’uomo nuovo.

Anarchia o anomia?

L’avvenuto abbandono della prospettiva rivoluzionaria si manifesta anche con la consolidata mancanza di un ideario in ordine ai problemi fisiologici inerenti all’aspetto costruttivo della società libertaria. La cosa non riguarda, certo, le caratteristiche specifiche della nuova società, la cui costruzione spetta alle masse rivoluzionarie. Ma fra esse operano gli anarchici, il cui ruolo dovrebbe essere quello di svolgere una funzione di sensibilizzzazione e di indirizzo della progressiva maturazione della coscienza di classe delle masse medesime. Per fare questo, il minimo consiste nel sapere indicare almeno le essenziali linee di base da seguire, con particolare riguardo alle problematiche ed alle questioni “fisiologiche”, che cioè sono ineliminabili anche per una società nata da una rivoluzione sociale radicale, e quindi comunista, che debbono essere impostate in modo diverso dal passato. Naturalmente, se si vuole, tutto questo può essere tranquillamente ignorato, e ci si può chiudere in modo apodittico nella mera reiterazione dei principi classici dell’anarchismo, oppure ci si può inchiodare su certe dogmatiche applicazioni di essi – comunque e dovunque – a guisa di elementi cardine di un’identità testimoniale: tipo, gli anarchici non votano mai, e basta! Se voti, ed a prescindere dalle congiunture, non sei anarchico.

Certe rigidità “pretesche” (l’uomo fatto per il sabato) naturalmente trascurano di distinguere fra consultazioni elettorali “ordinarie” e quelle in cui sono in gioco (o possono entrare in gioco) diritti fondamentali del cittadino e/o del lavoratore; oppure cambi di governo o di regime peggiorativi (non dimentichiamo che Hitler andò al potere per via elettorale). Tutti esiti che una partecipazione al voto – di legittima difesa, stanti le regole del sistema – a volte potrebbero essere evitati. E invece no: fra l’andare al massacro dopo le elezioni, ed il votare prima, taluni preferiscono il massacro. Un problema di gusti.

Ad ogni modo, la mancanza di chiarezza e concretezza sull’aspetto costruttivo della società, dopo l’auspicata rivoluzione sociale, ha importanti effetti negativi, perché espone tutto il movimento anarchico alle accuse (a volte fondate) di ingenuità ed inconcretezza che gli avversari gettano a piene mani.

Invece le risposte ci sarebbero, se solo si abbandonassero certi modi di pensare, astratti da ogni realtà e dotati più di carattere favolistico che rivoluzionario. La matrice di essi sta in un esasperato (quand’anche inconfessato) individualismo che nella sua essenza ha ben poco di “sociale”, incentrandosi sulla vecchia e sterile posizione del “fa quello che vuoi”, la quale assolutizza l’azione autonoma dell’individuo/monade. Notò già Luigi Fabbri, sull’influsso delle ideologie borghesi nel milieu anarchico, che

“L’importanza massima data a un atto (…) di ribellione scaturisce dalla importanza massima che la dottrina politica borghese dà a pochi uomini in confronto di tutto l’ambiente sociale (…). Così ci troviamo ad aver constatato due forme d’influenza borghese sull’anarchismo: l’una indiretta, che si manifesta in una importanza maggiore data al fatto rivoluzionario che non allo scopo a cui esso doveva tendere, – e l’altra indiretta, della letteratura borghese decadente (…) volta a idealizzare le forme più antisociali di ribellione individuale. (…). Lo stesso fu per la questione dell’organizzazione. Gli anarchici hanno sempre sostenuto che non c’è vita fuori dell’associazione e della solidarietà, e che non è possibile la lotta e la rivoluzione senza un’organizzazione preordinata dei rivoluzionari. Ma ai borghesi faceva comodo dipingerci come fautori dell’anarchia nel senso di confusione, e cominciarono a dire che siamo amorfisti, nemici di ogni organizzazione; e a tal uopo scovarono Nietzsche e poi Stirner … Molti anarchici abboccarono all’amo, e diventarono sul serio amorfisti, stirneriani, nicciani e consimili diavolerie: negarono l’organizzazione, la solidarietà, il socialismo; per finire, alcuni, col rimettere sull’altare la proprietà, precisamente facendo l’interesse della borghesia individualista. Le loro idee divennero, in questo senso, – secondo la frase di Filippo Turati, -‘l’esagerazione dell’individualismo borghese’.” (1)

Nessuno vuole mettere in discussione l’importanza dell’individuo (il cui contenuto sta nella risposta alla domanda: “che cos’è Tizio?”), poiché ad esso corrisponde una persona (a cui si riferisce la domanda: “chi è Tizio?”, ma la risposta non può che risiedere nell’ineffabilità dell’esistenza singola).

La persona è irripetibile, è un valore unico; ed è asse portante del pensiero e dell’azione dei libertari la difesa dell’individuo/persona dai tentacoli di un assetto sociale basato sul dominio. Ma la questione dell’individuo/persona va vista in una dimensione binaria, cioè attinente al suo rapporto con il contesto associato, che include anche la difesa di quest’ultimo, quando assolutamente necessario. I primi anarchici dell’Internazionale erano socialisti e comunisti perché si rendevano conto appieno della natura e/o realtà sociale dell’essere umano.

Vivendo in società, ed essendo portato a ciò, l’individuo/persona – fermo restando il suo intrinseco valore a-ssoluto (vale a dire as-tratto da tutto) – in termini pratici non è assoluto per nulla, bensì è inserito in fitte trame di relazioni sociali con persone e situazioni che sono “altre da lui”, e che il più delle volte non vengono immediatamente percepite: si pensi, banalmente, alla casa, al cibo, ai vestiti, ai trasporti pubblici e privati, ai rifornimenti energetici, etc.

Tutto ciò è frutto del lavoro e dell’intervento di altri, a loro volta interrelazionati e che compongono la cosiddetta “società”. Di questo l’individuo/persona fruisce, non può farne a meno, e contribuisce col proprio lavoro. Bisogna tenerne conto prima di asserire l’incondizionata e totale autonomia dell’individuo/persona di fronte alla società in genere ed a quella nata dalla rivoluzione in particolare.

Si è prima parlato di “favolismo” poiché da parte di taluni l’assunzione dell’individuo/persona come dato totalizzante giunge al punto di considerare la piena democrazia diretta non come un punto massimo di arrivo, preconizzando una non meglio precisata ulteriore dimensione di libertà totale. Per cui la società nata da una vera rivoluzione sociale non sarebbe solo anarchica, ma anche anomica (senza regole).

Ben si conosce l’uso distorto e propagandistico fatto dagli avversari borghesi del termine “anarchia”: un caos totale in cui ciascuno fa quel che gli pare, ed alla fine i deboli ci vanno di mezzo, più e peggio che nelle società rette dal dominio e dalla gerarchia, dove almeno le leggi stabiliscono diritti e doveri, e c’è chi vigila sulla loro applicazione. Ed all’uomo comune la parola “anarchia” fa paura (2).

Le etimologie non sono un mero e noioso esercizio accademico, ma aiutano a chiarire il significato delle parole usate, sulla base del principio che se si parla male si finisce anche col pensare male. In base al suo etimo greco, anarchia implica – con riferimento alla sfera politica – la negazione del governo, della signoria, del dominio; negazione, cioè, di una potestà oggettivamente ed irrimediabilmente superiore ed esterna sia alla società sia all’individuo/persona. L’anomia, invece, è l’assenza di νόμος, di regola o legge che sia.

La nuova organizzazione sociale e le caratteristiche di base del suo diritto

Chiarito preliminarmente che i “classici” non sono feticci da adorare acriticamente e dogmaticamente, bensì punti di riferimento utili per capire bene da dove si sia partiti, in modo da non perdere l’orientamento, va ricordato che – non a caso – “Proudhon e Bakunin aspirano a distruggere lo Stato, ma, attenzione!, non il potere politico. Esso dovrà risolversi nelle istanze di base, dovrà essere esercitato da molti e armonici centri di decisione…” con una formula “di democrazia diretta e di federalismo” (3). D’altro canto la ben nota espressione bakuniniana che rovescia lo schema liberale – affermando, in luogo della libertà altrui come limite della libertà individuale, che è invece la mia libertà ad avere bisogno della libertà degli altrui per realizzarsi ed esplicarsi – implica proprio la stretta interrelazione fra il singolo ed il contesto sociale.

Prima di addentraci in questioni teoriche, alcune premesse ed alcune ipotesi politiche concrete.

Lasciamo subito da parte gli esempi che si potrebbero trarre maliziosamente dalle tragicomiche assemblee di condominio, perché espressione di situazioni e personaggi frutto della tipica psicologia sociale borghese. Teniamo conto, invece, del fatto che – come ha dimostrato l’esperienza del comunismo libertario nella Spagna rivoluzionaria del 1936 – la pratica della rivoluzione nella sua dinamica può portare anche a superamenti degli egoismi individualistici e di gruppo in termini quantitativamente elevati. E consideriamo pure – per contro – che per un imprecisabile periodo successivo alla rivoluzione taluni strati di popolazione restano refrattari a far propria la realtà post-rivoluzionaria, in quanto ancora inseriti in una prospettiva individualistica; oppure che in ordine a determinate scelte entrano in gioco interessi diversi, e spesso contrastanti. Di cui potrebbero benissimo essere portatori dei rivoluzionari, anarchici, o persone “neutre”.

Si dice anche, e siamo d’accordo in linea di massima, che nell’ordine di una società libertaria si realizza un passaggio dalla politica all’amministrazione. Peraltro, nel corso dell’esperienza della Spagna rivoluzionaria gli stessi partecipanti alle iniziative di collettivizzazione – nel piccolo e nel meno piccolo – costituirono nel quadro della democrazia diretta i necessari apparati decisionali, amministrativi, contabili e statistici. Infatti, resta sempre a monte la necessità che gli interessati stabiliscano “come” debba essere svolta l’attività amministrativa, perché se ognuno fa come vuole non si ha più l’anarchia, ma il caos, e l’amministrazione va farsi benedire, a cominciare dall’archiviazione dei documenti per finire con la gestione vera e propria. Il che verrebbe aggravato da un fattore che nell’ottica libertaria è fondamentale: la rotazione degli incarichi stabilita dall’assemblea competente.

Per non parlare poi delle controversie fra individui, che possono sempre insorgere quand’anche il comunismo libertario ne riduca assai i probabili temi; oppure fra società ed individui; o fra organismi della stessa o di altre realtà federate. E tralasciamo pure le ineliminabili esigenze di difesa interna ed esterna.

La questione, quindi, non sta nell’assenza di norme, cioè di un diritto, ma nella tipologia, e nell’approccio verso il soddisfacimento delle esigenze definitorie delle pretese singole e di gruppo, conciliatorie, sanzionatorie e difensive.

Nei “mattoni” giuridici in uso nelle università si parla frequentemente di un aspetto dell’ordinamento giuridico autoritario che è sempre restato a livello di pia illusione: la “certezza del diritto”, pur trattandosi dell’esigenza che molto probabilmente in epoche remore ha portato alla scritturazione delle norme sociali.

Bene. I sistemi giuridici statali ignorano, e volutamente, quest’esigenza: le norme si sovrappongono caoticamente nel tempo, spesso oscure e di non facile collegamento con le precedenti; la pratica delle abrogazioni non espresse, ma implicite, rende spesso un rompicapo accertare che cosa sia rimasto in vigore della normativa precedente; l’interpretazione delle norme positive non è lavoro alla portata di tutti, e spesso porta a risultati non prevedibili alla luce della sola “lettera” della norma. Tutto questo crea una situazione tale che quando nasce una controversia il problema per gli interessati non sta tanto nell’avere ragione quanto nel trovare un giudice che la riconosca!

La primaria esigenza regolativa di un società libertaria sta quindi:

* nel garantire la massima democrazia diretta per quanto riguarda la produzione delle regole sociali, e limitarla alle situazioni realmente necessarie per i singoli e la società stessa;

* nel darsi norme fondamentali della massima chiarezza, in modo da fare della certezza del diritto una realtà e non un desiderio;

* nell’evitare il più possibile che il sistema giuridico implichi la necessità di rapportare di volta in volta il fatto concreto alla norma astratta (per forza di cose sempre insufficiente ad in quadrare la complessità ed il dinamismo della vita sociale);

* e, per conseguenza, nel praticare, alla luce delle norme fondamentali, la ricerca del “diritto concreto” che il caso singolo in sé contiene, tenendo presente il principio ciceroniano summum ius summa iniuria.

Disse Kant che i giuristi sono ancora alla ricerca dell’esatta definizione di che cosa sia il diritto. Può sembrare paradossale, ma è in buona parte vero. Da qualche secolo a questa parte la cosa più facile è darne una definizione formalistica: il diritto (o complesso di norme positive) è quello che lo Stato produce e/o definisce come tale, essendo questi il monopolista della forza e del diritto. A ciò si aggiunge – inevitabilmente – il complesso delle interpretazioni effettuate dai teorici del diritto e dai giudici, nei limiti in cui siano state comunemente accettate dalle corti giudiziarie. I contrasti vengono risolti dalla c.d. Suprema Corte. Fino ad oggi nell’individuazione delle fonti specifiche del diritto si delinea un ristretto oligopolio produttivo che ha bisogno della forza per la “vigenza” del suo prodotto. Tutto questo va evitato come la peste.

I tentativi di definizione sostanziale del diritto portano talvolta a ridicole tautologie, come quella per cui un diritto positivo sarebbe dato dall’esperienza giuridica di un popolo in una determinata fase storica. Il che è anche giusto nel senso che il diritto non si riduce alle sole norme positive, ma resta irrisolto, e appeso, il possibile contenuto del termine “giuridico”.
Da quanto detto finora si può quindi ricavare che se storicamente una società basata sui principi anarchici può sussistere (ma la si deve volere, e se ne devono creare le premesse strutturali organizzative ed economiche) – e la Spagna libertaria ha ampiamente dimostrato che non si tratta di un’utopia – una società a-nomica è invece impossibile per definizione e concretamente.

Si tratta allora di ragionare sul “tipo” di norme coerenti con una società libertaria nata dalla rivoluzione sociale.

Finora si è parlato di “società” per indicare una stabile associazione di massa in cui vengono affrontate (o dovrebbero essere affrontate) le necessità – fondamentali e non – dell’individuo/persona e dell’aggregato associativo in quanto tale.

Pur tuttavia, in sociologia politica da tempo è stata introdotta una distinzione che ha una sua obiettiva ragion d’essere, in quanto a livello essenziale sono individuabili due differenti specie nell’ambito del più ampio genere della macro-associazione: la società e la comunità. La seconda è antica, mentre le prima è moderna.

L’essenza della comunità sta nella profonda unità del differente che vive al suo interno e la costituisce; di modo che la partecipazione ad essa non è per il singolo un’alienazione bensì una realizzazione. La società, invece, è costituita da “una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono e abitano (…) l’uno accanto all’altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là [nella comunità; N.d.R.] rimangono legati nonostante tutte le separazioni. (…) ognuno sta per proprio conto ed in uno stato di tensione contro tutti gli altri. (…) ciò che uno possiede e gode è posseduto e goduto contro tutti gli altri; non esiste in realtà alcun bene che sia tale per tutti” (4). E nelle società capitaliste questa è la regola generale.
I comunisti anarchici per parte loro puntano alla creazione di comunità che si federino fra di loro, dilatando al massimo il senso dell’appartenenza, della partecipazione e dell’affratellamento. È in questa prospettiva che vanno impostati ed esaminati i problemi che si possono porre.

All’interno del movimento anarchico si è spesso motivata la superfluità delle istituzioni statali in un assetto societario libertario con il fatto che in questa nuova dimensione opererebbe una diffusa interiorizzazione di norme etiche la cui risultante supplirebbe all’azione dello Stato.

Ora, fermo restando che la possibilità di vivere in una società senza Stato implica una rivoluzione interiore di una certa consistenza – la quale, se pure non avviene prima, può essere indotta dall’esperienza stessa della rivoluzione – va pure considerato che la superfluità dello Stato discende dal fatto stesso della riappropriazione da parte del corpo societario delle sue prerogative quale soggetto collettivo indipendente ed autonomo.

La questione del diritto naturale

Il discorso sull’interiorizzazione delle norme etiche fondamentali può facilmente portare – come in effetti accade – all’affermazione che il funzionamento della macro-comunità libertaria si basa sul diritto naturale. Cerchiamo di mettere ordine nella questione senza lasciarci prendere da facili entusiasmi.

Sul diritto naturale (5) si è molto discusso filosoficamente dall’epoca degli antichi romani, ed in modo più accentuato dal rinascimento in poi, passando soprattutto per Ugo Grozio (Huig Van Groot) ed il suo De jure belli ac pacis (“Il diritto della guerra e della pace”), del 1625. A tutt’oggi il giusnaturalismo costituisce uno dei punti cardine dell’ideologia cattolica per il nesso fra diritto naturale ed ordine teologico della natura.

Sull’argomento sono state scritte intere e dotte biblioteche, ma per i non specialisti della materia (e comunque non solo per essi) l’impressione è di una serie di fumose disquisizioni (ideologiche nel senso marxiano del termine) spesso campate per aria. Anche perché (come riconoscono gli stessi fautori/teorici del diritto naturale) non si tratta di “un codice di leggi deducibili razionalmente, di regole che possono determinarsi fino agli ultimi dettagli con precisione immediata e col solo aiuto della logica (…) non può farsi una casistica del diritto naturale” (6).

Recentemente uno scrittore libertario ha definito il diritto naturale “come un insieme di principi generali che qualsiasi diritto positivo che pretende di servire l’idea di giustizia (invece degli interessi del gruppo sociale dominante) deve rispettare, adattare alle circostanze concrete del luogo e dell’epoca e tentare di applicare nella vita reale” (7). L’agggettivo “naturale” rimanderebbe ad una natura umana definita nei termini della razionalità e della libertà, e non ad una natura esterna e trascendente.

Sembrerebbe tutto chiaro, ma non lo è. Si resta sempre nell’indefinito, non già per quanto attiene ai principi generali: per esempio, unicuique suum è un principio generale accettabile sotto tutti i cieli ed in qualunque contesto culturale. Che cosa vada poi a significare concretamente … resta irrisolto anche all’interno dello stesso contesto culturale, dipendendo dai vari sottosistemi ideologici che lo compongono.

Tutta la problematica sul diritto naturale riporta – in definitiva – ad una vaga dimensione etica (ad una generica etica del “buon senso”, si potrebbe dire), facendo corpo con essa. Alla base di tutto ricorrono sempre le questioni della giustizia e della libertà. Ed è chiaro che senza una nozione di giustizia ben precisa non ci sarebbero mai state rivoluzioni sociali.
Tuttavia, una delle più importanti conquiste della cultura contemporanea – quanto meno dal sorgere delle scienze umane nella seconda metà del sec. XIX° – consiste nella consapevolezza (che ad ogni modo gli interessi politici ed economici tendono sempre ad offuscare) della pluralità delle culture e delle dimensioni etiche anche all’interno di una stessa cultura. Con ciò mandando all’aria le statiche “certezze” che precedentemente si erano autoritativamente affermate a partire dall’occidente europeo, e con il risultato di un “relativismo” culturale ed etico in contrasto con “verità” che sembravano consolidate.

Questo ci riporta alle origini greche della filosofia, quando la α̉λήθεια – che in italiano traduciamo con “verità” – non corrispondeva a “effettivo, concreto, reale, esatto, corretto, meritevole di essere creduto”, e non si muoveva nella logica dell’aut aut, bensì implicava l’atto del disvelamento di ciò che è al di là delle apparenze, e nulla diceva sull’avere la verità una o più facce (a guisa di un poliedro), consistendo essa nel dinamismo energetico del λόγος (la cui complessa traduzione ci porterebbe molto lontano).

Del pari chi lotta contro il capitalismo contrappone al concetto di giustizia della borghesia sfruttatrice il concetto di giustizia degli sfruttati, che scaturisce dal disvelamento di tutte le mistificazioni borghesi e dalla scoperta della struttura interna dei rapporti di classe. Ed in un certo senso può dirsi che sia la borghesia sia i rivoluzionari si muovono in coerenza con i loro “punti di vista”, cioè con le rispettive situazioni.

Ipotizzare, dunque, un preteso diritto naturale come fulcro del funzionamento della società libertaria lascia del tutto aperto il problema dei contenuti che si diano a quelli che in realtà sono solo principi generalissimi della razionalità umana, le cui concretizzazioni possono variare a seconda del contesto culturale e dei suoi sottosistemi. Di modo che, all’atto pratico, dicono poco, perché ci si dovrà mettere d’accordo di volta in volta sulle loro traduzioni concrete. Per taluno, ad esempio, pagare bene un lavoratore salariato e magari farlo lavorare sei ore al giorno sarà cosa giusta; ma per un comunista anarchico costituirà pur sempre una forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, un modo per estrarre plusvalore. Mutano gli angoli di visuale, e quindi anche i valori. E si potrebbe continuare.

Va poi detto che le vicende della vita associata richiedono concretizzazioni, via via meno rarefatte, di quei principi generalissimi su cui tutti possono essere d’accordo, pensandola poi in modo opposto sulle questioni pratiche, che sono quelle che incidono nella vita delle persone.

Analoghe riflessioni si possono fare sul concetto di “libertà”. Che significa? Anche su questo punto abbiamo a disposizione una sterminata biblioteca, altrettanto inutile sul piano della pratica.

In termini generali, nella prospettiva comunista anarchica vale – per quanto concerne la libertà – la classica impostazione di Bakunin, amante fanatico della libertà, ma “non di quella libertà individualista, egoista, meschina e fittizia vantata dalla scuola di Rousseau, come da tutte le altre scuole del liberalismo borghese (…). No, io intendo la sola ,libertà che sia veramente degna di tale uomo, la libertà che consiste nel pieno sviluppo di tutte le potenze materiali, intellettuali e morali le quali si trovano nello stato di facoltà latenti in ognuno; la libertà che non riconosce altre restrizioni all’infuori di quelle che ci sono tracciate dalle leggi della nostra stessa natura (…) Io intendo questa libertà di ciascuno, che lungi dall’arrestarsi come di fronte ad un limite innanzi alla libertà altrui, vi trova la sua conferma e la sua estensione all’infinito (…)” (8). Una libertà, quindi, che si definisce nella sua socialità.

Nell’ottica comunista anarchica esistono tre categorie generali di “libertà”: la libertà “da”, “per”, “con”. La libertà “per”, è possibile solo se esiste la libertà “con”, perché la sua effettività – stante la socialità inerente all’essere umano – dipende dall’essere liberi insieme ad altri esseri umani. Essere liberi vuol dire essere responsabili di noi stessi con noi stessi e con gli altri.

Nessuno di noi è il centro dell’universo, che se fosse il contrario potrebbero risultare giustificate le posizioni di egoismo estremo. Il nostro essere centro personale non prescinde mai dalla relazioni con gli altri centri personali, che nella concezione del comunismo anarchico finiscono – per così dire – con l’essere concentrici. La libertà, scrisse Proudhon, “non esiste che nella società. La libertà è anarchica perché essa non ammette il dominio della volontà, ma solo l’autorità della legge, vale a dire della necessità (…) è essenzialmente organizzativa” (9).

In merito al diritto naturale, a conclusione del discorso, va pure detto che esso, con i suoi principi generali che il diritto positivo dovrebbe poi tradurre in pratica, finisce col collocarsi in uno strano empireo situato fra la sfera etica e quella giuridica vera e propria. Talché appare alquanto anomala l’attribuzione ad esso della qualifica di “diritto”.

È proprio della norma etica avere una sfera di operatività che comprende l’intenzione interiore oltre all’azione esterna; con la conseguenza che essendo l’intenzione chiusa nel “foro interno”, e quindi accessibile solo al soggetto interessato, il rispetto della norma etica – con i suoi due inseparabili piani – non è in realtà coercibile appieno. La coercibilità riguarda solo l’azione.

La norma giuridica, invece, è “un imperativo che verte esclusivamente su un’azione (ordinata o vietata) nel mondo sensibile, indipendentemente dall’intenzione” (10), e la sua osservanza è perciò coercibile. Ne consegue che, a nostro modo di vedere, l’unico diritto esistente è quello positivo, ma non per questo ciò che si colloca fuori dalla sua sfera è privo di valore: per esempio, le singole nozioni di giusto ed ingiusto formano delle “esigenze pregiuridiche” la cui recezione nel diritto positivo è il punto concreto di arrivo di una lotta.. Per cui il problema diventa: quale diritto per una società libertaria?

Le norme sociali imperative

Dal punto di vista del contenuto le norme giuridiche possono essere distinte, fondamentalmente, in imperative o cogenti, non cogenti, (e/o derogabili, programmatiche e direttive. Il contenuto, tuttavia, non costituisce un vero e proprio problema, nemmeno per le norme imperative. La cosa, detta così brutalmente, potrebbe scandalizzare qualcuno, a motivo dello iato sostanziale che si è creato con i nostri “classici”.

Nel Programma della Fraternità Internazionale Rivoluzionaria del 1865, Bakunin – sul cui anarchismo, almeno, nessuno discute – auspicava che, dopo l’abbattimento dello Stato, i comuni si organizzassero rivoluzionariamente, si dessero dei rappresentanti, un’amministrazione e dei tribunali rivoluzionari, basati sul suffragio universale e sulla responsabilità reale di tutti i funzionari nei confronti del popolo (11). Lo stesso dicasi per le province ed il paese nel suo complesso.

E sull’imperatività delle norme sociali sembrano congrue e significative queste sue parole contenute nel c.d. Catechismo Rivoluzionario:

“Tuttavia la società non deve affatto restare completamente disarmata contro gli individui parassiti, malfattori e nocivi. Dovendo essere il lavoro la base di tutti i diritti politici, la società (…) potrà privarne gli individui maggiorenni che non essendo né invalidi, né malati, né vecchi, vivranno a spese della carità pubblica o privata (…). Essendo inalienabile la libertà di ogni individuo umano, la società non tollererà mai che qualunque individuo alieni giuridicamente la sua libertà (…). Tutte le persone che avranno perso i loro diritti politici saranno anche private del diritto di allevare e terene presso di sé i loro figli . (…) Ogni individuo condannato dalle leggi di una qualunque società, comune provincia o nazione, conserverà il diritto di non sottomettersi alla pena che gli avrà inflitto, dichiarando che non vuole più far parte di questa società. Ma in questo caso, la società avrà a sua volta il diritto di espellerlo dal suo seno e di dichiararlo al di fuori della sua garanzia e protezione.
Ricaduto così sotto la legge naturale occhio per occhio e dente per dente, almeno sul territorio occupato da questa società, il refrattario potrà essere spogliato, maltrattato, ed anche ucciso senza che quest’ultima se ne preoccupi” (12).

Si dirà che Bakunin non è un dogma, e siamo d’accordo. Quel che qui interessa è che tali affermazioni provengono da un anarchico indubitato e di prestigio, con implicazioni di principio chiare ed importanti, per quanto per certi versi talune conseguenze appaiano fortemente datate.

Oltre all’ammissione delle norme sociali imperative, in Bakunin trova spazio pure l’aspetto sanzionatorio. La ricostruzione di certi passaggi del suo torrentizio ragionare (notoriamente egli non privilegiò la sistematica) non è sempre agevole: tuttavia, se da un lato sostenne la più ampia libertà associativa per qualunque fine, anche se contrario agli interessi sociali; da un altro lato chiaramente affermò che “In caso di mancato adempimento di un impegno liberamente contratto e anche in caso di attacco aperto e provato contro la proprietà, contro la persona, e soprattutto contro la libertà di un cittadino (…) la società infliggerà al delinquente indigeno o straniero le pene stabilite dalle sue leggi” (13)!

Ed in James Guillaume il diritto sociale di coercizione a difesa del gruppo associato e dei suoi principi fondanti viene affermato con una nettezza di orientamenti anche strutturali che può stupire (o scandalizzare) chi sia abituato solo alle attuali affabulazioni di taluni anarchici:

“È improbabile che in una società in cui ognuno potrà vivere in piena libertà del frutto del suo lavoro, e troverà tutti i suoi bisogni abbondantemente soddisfatti, ci possano ancora essere dei casi e di furto e di brigantaggio. (…) Nondimeno non sarà inutile prendere delle precauzioni per la sicurezza delle persone. Questo servizio che si potrebbe chiamare, se ciò non avesse un significato troppo equivoco, la polizia del comune, non sarà affidato, come è attualmente, ad un corpo speciale: tutti gli abitanti saranno chiamati a prendervi parte, e a vegliare a turni nelle sezioni di polizia che la comune avrà creato. (…) Evidentemente non si potrà, dietro pretesto di rispettare i diritti dell’individuo e di negare l’autorità, lasciare circolare un assassino o attendere che qualche amico della vittima applichi la legge del taglione. Sarà necessario privarlo della sua libertà e trattenerlo in una casa speciale, fino a quando possa, senza pericolo, essere restituito alla società” (14).

Il fatto è che i maggiori pensatori e rivoluzionari comunisti anarchici che più hanno inciso sull’anarchismo nel mondo, oltre a ragionare sulle possibili linee organizzative di base di una società senza Stato (sia per chiarirsi le idee, sia per essere in grado di dare risposte coerenti alle inevitabili obiezioni degli avversari), lo hanno inteso come organismo esterno e/o sovraordinato alla società, con tutto quello che ne è conseguito e ne consegue; prospettando, però, un assetto comunitario in cui – bandito il dominio – l’autorità promana dal basso verso l’alto, con una “globalità” che abbraccia il politico e l’economico.

Tant’è che in quest’ottica Noam Chomsky ha potuto scrivere che “Gli anarchici, quelli a cui ci riferiamo [Bakunin e Kropotkin; N.d.R.] hanno sempre creduto che il controllo della vita produttiva fosse condizione “sine qua non” per una vera e significativa pratica democratica” (15). E controllo dell’economia vuol dire esercizio di autorità e gestione da parte dei lavoratori organizzati.

In termini strutturali l’organizzazione di un aggregato sociale anarchico è stata così sinteticamente rappresentata – ed in modo classico – da Chomsky: “una rete di consigli dei lavoratori e, al livello superiore, la rappresentanza di più fabbriche e di rami dell’industria e del commercio, e così successivamente, fino alle assemblee generali dei consigli dei lavoratori a livello regionale, nazionale e internazionale. Da un altro punto di vista, e su un altro versante, si può immaginare un sistema di governo basato su assemblee locali, a loro volta federate regionalmente, le quali si occupino dei problemi regionali, per esempio quelli concernenti l’occupazione, e quindi l’industria, il commercio, ecc., per passare poi al livello nazionale, alla confederazione delle nazioni, ecc.” (16).

Niente a che vedere, quindi, con un mondo di monadi autonome che mal comunicano fra loro, bensì di molecole che entrano in sistemi vari le une con le altre per le gestione diretta degli interessi comuni e la oro difesa. Una realtà associativa nata da un’autentica rivoluzione sociale si sostanzierà come democrazia diretta radicale e diffusa, organizzata dal basso e dotata di tutti gli strumenti interni per la sua sussistenza.

La produzione delle norme sociali

Chiarita tutta una serie di passaggi, c’è da vedere quale tipo di norme, e quale modalità di produzione di esse sia compatibile con una società libertaria.

L’avvento del cosiddetto Stato moderno ha progressivamente portato ad un accentramento dell’attività di produzione normativa di cui si è già accennato. Attività ormai concentrata – a livelli diversi – nello Stato e negli enti periferici da esso costituiti o riconosciuti.

Parallelamente si è ridotta, fin quasi a scomparire, la sfera di produzione normativa da parte del corpo sociale (la quale attiene dierttamente ad interessi concreti ed immediati delle popolazioni): cioè la sfera di quella che era chiamata “consuetudine”, ed in cui si realizzava un diritto “a formazione spontanea”. Nell’attuale Codice Civile italiano, all’art. 8 delle disposizioni sulla legge in generale, la consuetudine viene chiamata “usi” (termine non casuale, perché implica già nel nome un declassamento) e la sua operatività è ridotta ai minimi termini: “Nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati”.

Il discorso sull’origine e la formazione della consuetudine ci porterebbe lontano e fuori tema. Qui interessa rilevare che è esistita – e nei diritti statuali odierni opera a livelli minimali – una capacità sociale di formazione del diritto indipendente dall’intervento dello Stato.

È naturale che in una società libertaria essa ritroverebbe il suo ampio spazio originario, insieme agli accordi pattizi fra individui e/o gruppi; con tutti gli eventuali correttivi postulati dal fatto che le consuetudini pre-statali risalivano in genere ad epoca remota e non erano facilmente modificabili per iniziative singole che non fossero espressione di dominio. Di modo che, nei limiti del possibile, dovrebbe avere un ruolo più indicativo ed interpretativo dei comportamenti sociali diffusi che non imperativo o cogente.

Per quanto riguarda il diritto positivo, non vi è dubbio che gli interessati riuniti in assemblee, o i loro delegati muniti di mandato imperativo, ne sarebbero la fonte produttiva, in ragione dei diversi ambiti di competenza per materia e territorio.

Richiamandoci a quanto detto sulla “certezza” da dare al diritto, ed a motivo della funzione essenzialmente di guida che il diritto dovrebbe avere in una società libertaria, va detto che le norme positive dovrebbero contenere soprattutto principi regolativi chiari e certi, in modo da poter assolvere al duplice compito:

1. di evitare l’ignorantia legis a cui ormai nessuno sfugge, ma che notoriamente non excusat, con tutte le implicazioni del caso;
2. di fare sì che non si ricreino le “trappole” giuridiche la cui apertura e chiusura – spesso casuale – è monopolio degli “specialisti della materia”.

Nella formazione delle norme entrano in gioco oltre all’auto-nomia dell’individuo/persona, l’autonomia del corpo societario in quanto tale; ed è la risultante delle autonomie individuali e di gruppo quella che forma l’autonomia societaria, o meglio comunitaria.

Laddove non si abbia unanimità nella formazione delle norme che sanciscano diritti ed obblighi, ovvero nella loro modifica, è ovvio che non potrà più parlarsi di carattere pattizio alla base delle norme stesse. Questa, comunque, sarà sempre il frutto di un’autonomia collettiva che punta a garantire lo sviluppo del singolo, del corpo societario e delle loro autonomie; e per i soggetti che siano stati contrari alle deliberazioni in questione dovrebbe avere essenzialmente un valore “regolativo/indicativo”, dando loro il senso di quale sarà l’orientamento della maggioranza con cui essi nel loro agire dovranno fare i conti, in modo da potersi comportare di conseguenza, assumendosi le responsabilità inerenti.

Lo stesso Stirner ebbe a scrivere che “La condizione originaria dell’uomo non è l’isolamento o la solitudine, ma la vita sociale” (17). E che ad ogni buon conto “C’è differenza tra una società che limita la mia libertà, e una società che limita la mia individualità. Nel primo caso vi è unione, intesa associazione. Ma, quando la mia individualità è minacciata, è allora che essa si trova di fronte a una società che costituisce un potere a sé stante, un potere al di sopra dell’Io, che mi è inaccessibile (…) che io non posso né controllare né utilizzare (…). Nessuna associazione potrebbe venir fondata né esistere senza alcuna limitazione della libertà (…). Una limitazione della libertà è in ogni caso inevitabile” (18).

Una delle osservazioni che può farsi in ordine a questo problema riguarda le persone che, per motivi vari, non abbiano voglia, di partecipare – come pure sarebbe loro diritto ed interesse – alle deliberazioni collettive. Anche questo vale come esercizio di libertà che un aggregato sociale non potrà che rispettare. Il risvolto, però, è il solito: la responsabilità. L’aver preferito non fare nemmeno intendere le proprie ragioni, rinunciando eventualmente ad influire sull’esito delle deliberazioni, varrà come silenzio/assenso preventivo, e di fronte ad un deliberato assembleare già formatosi i motivi di lamentela saranno ragionevolmente assai ridotti.

I presupposti tecnico/strutturali di un processo normativo effettuato dal basso sono essenzialmente due, uno antico e uno moderno. Il primo, consiste nella proliferazione in basso di centri decisionali collettivi, fra loro federati a livelli crescenti. Il secondo, nella moderna tecnologia elettronica che consente interrelazioni pluricentriche in tempo reale. Inutile dire che alla base ci deve essere la più ampia possibilità di accesso alle informazioni.

Quel che conta sottolineare è che oggi, non esisterebbero ostacoli tecnici per un esercizio rapido della democrazia diretta.

Oltre al processo formativo, la cosa estremamente importante è che la normativa prodotta:

1. sia snella e non voluminosa;

2. lasci uno spazio ampio all’autonomia privata, intervenendo solo per gli aspetti assolutamente di interesse collettivo;
3. presenti il meno possibile un carattere ordinatorio, dando preferenza ai modelli di comportamento ritenuti più funzionali per la collettività stessa, senza però tendere a trasformarli in esclusivi, in modo da consentire ai singoli di meglio realizzare il proprio interesse insieme a quello generale, esplicandosi la libertà individuale entro i soli limiti e divieti che la collettività, per le sue esigenze vitali abbia ritenuto necessario porre in essere.

Le norme sul traffico richiederanno sempre una precettistica di dettaglio; le altre no.

Tutta la normativa prodotta da una collettività libertaria, in sintesi, non potrà che ispirarsi, per essere coerente con le proprie radici, a quanto scrisse ad esempio Rudolf Rocker: “La libertà (…) è (…) la possibilità concreta per tutti gli esseri umani di sviluppare pienamente nella vita le facoltà, le capacità, i talenti che la natura ha dato loro e porli al servizio della società” (19).

Un aspetto, comunque, va ribadito: in una collettività libertaria la situazione è ben diversa da quella di una società statale dove la legge è una mostruosa creazione (soprattutto la legislazione amministrativa) che punta a regolare nel dettaglio una serie infinita di attività ed aspetti della vita privata e sociale. Nella collettività libertaria le caratteristiche essenziali – e quindi le esigenze – fanno sì che la produzione di norme possa avvenire solo laddove realmente necessario o indispensabile, lasciando campo libero alle autonomie private e/o collettive; e che – in linea di massima – la normazione può incentrarsi fondamentalmente nella determinazione di landmarks (positivi e negativi), pietre miliari o punti di orientamento di base.

E poiché i mondi non si fanno in un solo giorno, è appena il caso di far presente che di pari passo con l’eventuale consolidarsi della collettività libertaria federata – e nei limiti in cui essa non rischi di essere messa in gioco in quanto tale – potrà darsi luogo ad ampliamenti della sfera operativa individuale e sociale per coloro che proprio non vogliano aderire ai principi ed alle forme di svolgimento di questa collettività. Forse anche al punto di includere nella sfera della libera sperimentazione sociale anche, in certi casi, gli accordi con cui una persona si impegna nei confronti di un’altra non su un piano di eguaglianza e di reciprocità.

Tuttavia tenendo presente due indicazioni del vecchio Bakunin. La prima, che è certa “l’impossibilità di successo di una rivoluzione nazionale isolata” (20); e la seconda, che “La società non potrà impedire che un uomo o una donna, privi di ogni sentimento di dignità personale, si mettano, sotto contratto nei confronti di un altro individuo, in rapporto di servitù volontaria, ma essa li considererà come degli individui che vivono di carità privata, e di conseguenza privati del godimento dei diritti politici, per tutta la durata di questa servitù” (21).

Siffatto ambito non potrà che essere contenuto al massimo, considerando che l’asservimento derivante dal lavoro salariato è – insieme alla proprietà privata dei mezzi di produzione – una delle componenti di base del sistema capitalista, che i comunisti anarchici invece operano per distruggere e che è incompatibile con il principio fondamentale del lavoro liberamente svolto sotto il controllo dei medesimi produttori.

Pier Francesco Zarcone
[* Articolo tratto dal sito della Federazione dei comunisti anarchici www.fdca.it ].

Note:

1. L. FABBRI, Influenze borghesi sull’anarchismo, Milano 1998, pp. 35 e 46.
2. Sull’argomento, R. GIULIANELLI, L’Anarchia nelle enciclopedie e nei dizionari italiani. Note sulla storia di un lemma, in Rivista Storica dell’Anarchismo, n.1, 200, pp.95-107.
3. J. GÓMEZ CASAS, Storia dell’anarcosindacalismo spagnolo, Milano 1975, p. 77.
4. F. TÖNNIES, Comunità e Società, Milano 1979, pp. 83-84.
5. G. FASSÒ, La legge della ragione, Bologna 1964.
6. F. De ESCALANTE, El derecho natural entre la “exigencia” ética y el “razonamiento” político, in El Derecho Natural Hispánico, Madrid 1973, pp.96-97.
7. A. PERRINJAQUET, Anarchici senza legge? Chi l’ha detto?, in Libertaria, n. 2, 2001, p. 78.
8. Citato in D. GUÉRIN, Né Dio né padrone, Cremona 2001, pp. 133-34.
9. J. PROUDHON, La proprietà è un furto, riportato in D. GUÉRIN, op. cit., p. 57.
10. A. PERRINJAQUET, op. cit., p. 77.
11. Riportato in D. GUÉRIN, op. cit., p. 149.
12. Ibidem, p. 153.
13. Ibidem.
14. J. GUILLAUME, Idee sull’organizzazione sociale, 1876, riportato in D. GUÉRIN, op. cit., p. 242.
15. N. CHOMSKY, Anarchia e Libertà – Scritti e interviste, Roma 2003, p. 53.
16. Ibidem, p. 60.
17. M. STIRNER, L’unico e la sua proprietà, riportato in D. GUÉRIN, op. cit., p. 34.
18. Ibidem, p. 35.
19. R. ROCKER, Anarcho-syndicalism, London 1938, p. 31.
20. Riportato in D. GUÉRIN, op. cit., p. 147.
21. Ibidem, p. 153.

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