di Marco Cedolin
E’arrivato veramente il momento di staccare la spina, anche perché in caso contrario qualche blackout provvederà a farlo perentoriamente al posto mio.
Sono stati 7 mesi difficili, questi d’inizio anno, permeati di foschi presagi, infarciti di tragedie, senza un attimo di requiem, tanto che quando decidevi di metterti a mangiare pane e ottimismo, improvvisamente dal desco spariva il pane e ti ritrovavi solo con l’ottimismo, poco commestibile, ipocalorico e probabilmente pure transgenico. C’è stata la guerra in Iraq, o meglio l’aggressione americana dell’Iraq, perché il termine guerra lo userei impropriamente in quanto sottende almeno due contendenti e in verità se n’è visto sempre uno solo.
Sono andato a manifestare per la pace, ho vissuto bei momenti di aggregazione, addirittura mi sono illuso che milioni di persone nelle piazze potessero contare qualcosa, perchè il gusto dell’utopia me lo porto dentro fin da bambino e anche adesso che l’età dovrebbe essere quella del cinismo non riesco mai a disfarmene completamente.
Non capisco per quale sottile meccanismo inconscio mi sia ritrovato a parlare dell’ Iraq proprio adesso che posso godermi la simmetria degli ombrelloni aperti dinanzi a me, il passeggio ondeggiante delle fanciulle dentro a costumi che sembrano usciti da un caleidoscopio e questo effluvio di crema solare che solo a sentirlo già mette il buon umore.
E’ stata dura arrivare fin qui, oltre 6 ore chiuso in auto, spesso a passo d’uomo, con il sole che sparava implacabile i suoi raggi assassini sul fiume in secca di lamiere gommate, con la protervia di quella cintura che pretendendo di salvarmi la vita mi incollava al sedile di velluto in una sorta di sauna improvvisata.
Chissà perché mi sono sentito ridicolo, i fari accesi a illuminare la luce, l’auricolare pesantemente conficcato nell’orecchio destro, la rete di protezione ad isolare nel reparto bagagli il mio pinsher di 37 centimetri che certo se conoscesse l’uso della favella avrebbe da dirmi più di qualche parolina.
Mi sono meritato questo refolo di brezza che mi carezza i capelli, mentre cerco di ritagliarmi il mio metro quadrato di libertà sul bagnasciuga.
Sono stati mesi di notevole stress psicoemotivo, la SARS a rievocare l’atavico terrore della pestilenza, la recessione ad aprire voragini abissali dentro il portafogli, la riforma del lavoro a farti capire che nel futuro della new economy potrai sostentarti solo in periodi temporalmente circoscritti della tua vita.
La criogenia ho scoperto essere ancora agli albori e oltretutto parecchio dispendiosa, per cui non ho potuto fare a meno di convivere col tarlo che mi domandava cosa avrei mangiato nei periodi d’esubero, mentre l’idea dell’ottimismo geneticamente modificato era al di là dall’apparirmi convincente.
Comunque questi pensieri sono simili a mosche petulanti, così lontani dagli sportivi che allegramente di fianco a me saltellano a tempo di musica nel paradiso dell’acqua gym.
Lasciatemi infilare nel cicaleccio disimpegnato delle persone in coda al baretto, fiumara umana tarantolata come me dalla fantasia di qualcosa di ghiacciato.
Basta pensare alla vergogna dell’impunità o delle leggi delega, basta con le armi di distruzione o il massacro del popolo palestinese, basta convivere con l’angoscia per l’ecocidio che in tutto il mondo stiamo perpetrando.
Neppure i cellulari che suonano a ripetizione sotto agli ombrelloni o il sole 24 ore che sta leggendo quel signore attempato con la barba dinanzi a me riusciranno a riportarmi alla realtà.
Ho scelto di accomunarmi ai miei compatrioti in un’overdose di sano egotismo e neanche le bombe mi schioderanno di qui.
Forse la ricetta dell’ottimismo è proprio questa, la realtà non è poi così brutta, basta chiudere gli occhi e miracolosamente sparisce come in una dissolvenza.