di Vincenzo Andraous
Mi chiedo spesso se sia giusto o meno esprimere un’opinione, un dissenso, una condivisione, alla luce della mia condizione.
Intendo dire se sia meglio tacere, rimanere in ultima fila, nel rifugio più comodo, oppure chiedere di prendere la parola, in forza di una responsabilità ripristinata dai passi fatti in avanti in anni di inciampi e di crescita personale.
Adoperare la parola nella speranza di fornire spunti per una riflessione prospettica, non certamente per fomentare una polemica inaridente.
Trent’anni di carcere scontati non sono pochi, è un periodo lungo, ed anche se oggi usufruisco della semilibertà, continuo a essere un detenuto, soggetto agli ordinamenti penitenziari, alle molte limitazioni e prescrizioni.
Al mio rientro serale in carcere, ho letto sul Corriere della Sera di mercoledì 6 agosto l’articolo del prof. Della Loggia, e giovedì 7 la risposta del Ministro Castelli, sulle molteplici problematiche del carcere italiano. Entrambi hanno scandagliato il “pianeta sconosciuto“ con occhi attenti, ma giungendo a conclusioni assai diverse: come se il film visto fosse stato uno solo, ma stranamente e incredibilmente memorizzandone una storia diversa, con protagonisti diversi.
Leggo che il carcere che ci ritroviamo è un buco nero terribile, poi leggo il giorno dopo che invece non è poi così… malandato, anzi.
Davanti a dicotomie così repentine, a verità così devastanti per interpretazione, a fatti oggettivi che diventano filosofie astratte, un cittadino comune cosa può e deve pensare?
Di certo se già è indifferente, distaccato, da rifiutare di interessarsi del proprio vicino caduto in disgrazia, questa contrapposizione servirà unicamente a renderlo più diffidente e vendicativo nei riguardi di chi ha sbagliato; “infatti è anche da questa discrepanza che si creano le basi per lo sgretolamento del senso di sicurezza: discrepanza tra ciò che è realmente, e ciò che si vorrebbe fare apparire”.
Ma al male non si risponde con altro male, bensì con la fermezza dell’umanità ritrovata, la quale non ha occhi da utopista né da illusionista, ma comportamenti coerenti con lo spirito delle leggi, quelle vigenti, non quelle altre a venire che sanno di scartoffie impolverate.
Qualche volta occorre scendere dal proscenio e prendere atto che il carcere è ridotto come è, anche a causa di alcune leggi in disuso, le quali non sono mai state correttamente applicate, e di questo scempio la colpa è antica, risale a ieri, all’altro ieri, anzi forse a domani.
Infatti non porta voti né santificazioni occuparsi seriamente della galera, non è salutare guardare con pietà a chi sbaglia e deve pagare, non è innovativo a sufficienza spendere di più per prevenire e mettere mano alle leggi esistenti per renderle davvero operative, quindi efficienti ed efficaci.
Sono trent’anni che sopravvivo in carcere, e non mi pare che la prigione odierna sia uno spazio vivibile, accettabile, DIGNITOSO, certamente è un luogo del dolore migliorato rispetto a ieri, ma rimane un contenitore più di numeri che di persone, siano essi detenuti o operatori.
Non può bastare la giustificazione che in carcere ci sono operatori ( Direttori, Educatori, Agenti, Psicologi, Assistenti Sociali, Volontari ecc,) che per colmare le assenze ed i vuoti istituzionali, debbono lavorare il doppio o il triplo, per tentare di fare andare bene le cose.
Perché quei pochi operatori che scelgono di lavorare oltre che per la giustissima pagnotta anche per una vera e propria mission, non passerà molto tempo che si saranno arresi: sotto il peso del burn-out, per mancanza di risorse, di strumenti, circondati dalla frustrazione per l’assenza di una precisa volontà politica.
Relegare la discussione ai principi generali, è cosa facile, non si corre il rischio dell’offesa, né di un calo di popolarità, ma il discorso cambia e l’analisi diventa spietata, quando si spogliano delle armature le reali condizioni del carcere, le reali intenzioni che si hanno sul penitenziario, i reali investimenti che si fanno nel penitenziario.
Credo che queste sottolineature non consentano ad alcuno di alterare le emergenze, attraverso una sorta di ermetismo a effetto.
Equiparare, standardizzare, con un unico modello europeo, partendo dalla nostra Organizzazione Penitenziaria? Potrebbe essere un buon viatico per rendere finalmente più umano ciò che è disumano, per osservare da vicino le differenze abissali dei codici penali, i carichi diversi dei tetti delle condanne, la qualità delle pene erogate e la quantità di quelle scontate.
Potrebbe davvero servire a comprendere che ergastolo non può significare, dieci vite in una a morire, ma che 30 anni sono 30 anni, e costringere qualcuno a farne di più, equivale al plotone di esecuzione, non a riabilitare.
Le misure alternative, quelle che dovrebbero fornire un senso tangibile a ogni percorso di ricostruzione intramurario, rimangono per molti versi una chimera, non solo perché mancano le figure Istituzionali di riferimento, a cui è demandato il compito dell’osservazione e trattamento del detenuto, ma perché gli Uffici di Sorveglianza sempre più caricati di nuovi impegni, non riescono evadere per tempo le istanze, né prendere in esame le eventuali richieste di quei detenuti in possesso dei requisiti necessari.
Trattamento rieducativo, spazi di socialità effettivi, agenti di polizia penitenziaria in esubero per garantirne il corretto svolgimento, educatori e figure di riferimento in numero appropriato per certificarne la qualità, sanità ad hoc per dentature mancanti, lavoro per i detenuti e garanzie minime di sopravvivenza per tutti ?
Se occorre una dentiera lo stato paga? E se occorre un medicinale particolare? Una cura particolare ? Io so che la spesa sanitaria in carcere è stata tagliata e non di poco.
Il lavoro è lo strumento principe di ogni trattamento rieducativo, di qualunque pedagogia dell’errore, eppure il lavoro che c’è, è quello che non esiste, e se anche ve ne fosse, è ridotto all’osso, perché anche questo capitolo ha subito tagli abnormi.
Sul carcere occorre veramente sperare l’insperabile, non certamente con quell’indultino da poco speso male, che non sottrarrà alcuno dal proprio dolore, e non condurrà ad alcuna soluzione dei problemi endemici all’Organizzazione penitenziaria.
Non è con le leggine martoriate dai pensamenti-ripensamenti che si eviteranno i tanti e troppi suicidi silenziosi, le recidive galoppanti, le critiche incongruenti agli Abele, ai Caino.
In queste righe c’è poca proposta, servirebbe altro per rendere “Alta una Giustizia che solo apparentemente è sotto lo stesso cielo, perché ciascuno possiede il proprio orizzonte per carpirne il riflesso migliore”.
Il caldo sta turbando le giornate e le notti di tanti cittadini incolpevoli, ma so anche che in una cella sovraffollata, senza alcun confort, occorre morire due volte, per arrivare a sera e poi a mattina ancora vivi.
Dunque della dignità foss’anche dell’ultimo degli uomini parliamo un’altra volta.
Vincenzo Andraous
Carcere di Pavia e
tutor Comunità Casa del Giovane
Agosto 2003 Pavia