La confusione non è mai una bella cosa e diventa ancora peggiore quando la si crea intorno ad un tema scottante come quello dell’economia, veicolandola attraverso una marea di cifre e dati estrapolati dalle fonti più svariate. Gli italiani hanno trascorso la primavera e l’estate assumendo man mano piena coscienza di come il loro paese si trovasse in una fase di grave recessione, dalla quale sarebbe stato molto difficile uscire.
Il messaggio è stato divulgato con ossessiva ripetitività da tutto il mondo dell’informazione. Uomini politici, esperti economisti, giornalisti di fama, opinionisti e mestieranti vari si sono affannati per mesi, alternandosi fra i salotti televisivi e la carta stampata, nello spiegarci che la situazione era davvero molto grave.
La produzione industriale scendeva inesorabilmente, i consumi interni si riducevano ogni giorno di più, il rapporto deficit – pil continuava a salire, le prospettive a breve e medio termine si rivelavano assai problematiche.
Facevano da corollario al quadro che si riempiva sempre più di tinte fosche anche i richiami da parte dell’ Unione Europea, sotto forma di moniti ad una migliore gestione della finanza pubblica.
Oggi a solo un paio di mesi di distanza, mentre il cielo bigiognolo d’autunno non ha ancora dato spazio ai primi rigori dell’inverno incipiente, scopriamo che un nuovo messaggio si sta materializzando, dapprima timidamente, poi man mano con sempre crescente convinzione. Lo si percepisce nei toni dei politicanti, nel diverso segno aritmetico che caratterizza il valzer dei numeri e delle statistiche, prima ancora che nell’agognata parola “ripresa” sussurrata da sempre più voci.
Di segnali incoraggianti, di ripresa ormai prossima, di aumento della produzione industriale ed altre amenità sui generis, stanno in questi ultimi giorni discorrendo quasi tutti.
Non solamente gli uomini del governo Berlusconi, costretti per ragioni di mero utilitarismo ad enfatizzare ogni sia pur vago segnale di vita della nostra economia moribonda, ma anche altri soggetti che ci avevano abituati a discorsi di ben diverso tenore.
Parlano di ripresa gli industriali che si erano sempre mostrati oltremodo scettici sull’argomento, ne parla il presidente della Banca d’Italia Fazio i cui giudizi erano da tempo pesantemente negativi, ne parla perfino il leader della coalizione di centrosinistra (prossima a trasferirsi dai banchi dell’opposizione a quelli del governo) Romano Prodi che più di ogni altro aveva cavalcato per i propri fini elettorali la drammaticità della crisi nella quale versava il paese.
È impossibile non rimanere a bocca aperta, con una sensazione a metà fra lo stupore e l’incredulità, di fronte a questa sorta di metamorfosi subitanea quanto imprevedibile che sembra caratterizzare il quadro economico italiano, a maggior ragione se scandagliando gli avvenimenti degli ultimi due mesi ci rendiamo conto che non è accaduto nulla, ma proprio nulla in grado d’incidere anche solo minimamente sulla congiuntura economica che stiamo attraversando, se escludiamo una finanziaria modesta, ricca di tagli e povera di misure adatte a porre le basi per una qualche forma di rilancio economico.
Non sono state varate leggi per affrontare e risolvere il problema, né si sono verificati a livello mondiale o europeo fatti importanti che favoriscano in qualche misura il nostro paese.
Da cosa nasce dunque tanto improvviso ottimismo, anche da parte di chi si diceva preoccupato oltremisura della drammatica situazione che caratterizzava la nostra economia?
Se invece che in Italia vivessimo altrove verrebbe voglia di rispondere che probabilmente sia l’atteggiamento di qualche mese fa, volto ad enfatizzare gli incontestabili dati che parlavano di recessione, sia quello di oggi, tutto improntato a voler vedere fantomatici segnali di una ripresa obiettivamente assai improbabile, nascano dalla cattiva fede e da ragioni utilitaristiche proprie del mondo politico e dell’informazione ad esso asservita.
Ma per forza di cose viviamo in Italia e siamo costretti a sperimentare sulle nostre spalle la realtà che ci circonda, a prescindere da come essa venga raccontata sui giornali.
La vera crisi economica del nostro paese non è quella che ci è stata illustrata per mesi, una crisi che parla il linguaggio erudito degli economisti, manifestandosi attraverso gli asettici dati del rapporto deficit – pil, della diminuita produzione industriale, della scarsa competitività delle imprese nostrane impossibilitate ad investire nell’innovazione.
Il rapporto deficit – pil può essere corretto con relativa facilità attraverso le politiche appropriate e buona parte delle imprese italiane, soprattutto quelle di medie e grandi dimensioni non versano affatto in una situazione di crisi. Molte di loro hanno anzi realizzato in questi anni di globalizzazione utili faraonici, come conseguenza della delocalizzazione, dell’evasione fiscale, della facilità nel poter reperire in Italia lavoratori a basso costo, sottopagati e sottotutelati, grazie alla legge 30 che ha legalizzato il mercimonio delle risorse umane.
Anche i grandi gruppi bancari, assicurativi, immobiliari, nonché la grande distribuzione alimentare hanno vissuto e stanno vivendo un periodo d’oro senza eguali, caratterizzato da un aumento esponenziale dei propri utili.
Così come hanno incrementato in questi anni a dismisura i propri introiti tutti coloro che operano da protagonisti nell’ambito dello spettacolo, dell’intrattenimento televisivo, dello sport agonistico, della pubblicità.
La vera crisi riguarda le persone normali, i milioni e milioni di lavoratori o aspiranti tali che si sono improvvisamente trovati a dover gestire una realtà economica per molti versi ingestibile.
La disoccupazione, a dispetto dei dati falsi ed offensivi dispensati dall’Istat, ha continuato a salire vertiginosamente e ad essa si è affiancata una vasta area di sottoccupazione caratterizzata da lavoratori (interinali, part time ecc.) che percepiscono introiti annui sufficienti forse a mantenere un animale domestico ma non certo una persona.
Il potere d’acquisto dei salari di chi ha fortuna di lavorare a tempo indeterminato si è ridotto negli ultimi 5 anni praticamente alla metà, rendendo un lusso inarrivabile tutto ciò che prima rientrava nella normalità.
Una grossa parte dei piccoli commercianti è fallita o si è vista costretta a chiudere la propria attività, schiacciata dalla grande distribuzione e dal costante calo dei consumi.
Molti piccoli imprenditori agricoli sono stati stroncati dal mercato e da una legislatura costruita a livello europeo con lo scopo di favorire solamente la grande imprenditoria.
I pensionati hanno visto la propria capacità di spesa erodersi sempre più ed una grossa parte di loro è impegnata in una quotidiana disperata lotta per la sopravvivenza.
Un’abbondante fetta della spesa delle famiglie italiane negli ultimi anni è stata possibile solo grazie al finanziamento del credito al consumo, facendo salire in maniera drammaticamente preoccupante l’indice d’indebitamento.
I giovani sono costretti a rimanere in famiglia (anziché al lavoro) a tempo indeterminato, nell’evidente impossibilità di trovare un’occupazione che gli permetta di costruire una propria famiglia, come hanno fatto i loro genitori.
Per la prima volta dal dopoguerra la società italiana sta economicamente regredendo in maniera vistosa e vaste fasce di popolazione mantengono una vita dignitosa solo grazie ai risparmi accumulati negli anni da nonni e genitori.
Per la prima volta dal dopoguerra il futuro non viene visto dalla maggioranza in un’ottica di miglioramento della propria condizione di vita, bensì come uno spettro carico d’incertezze e di precarietà.
Questa è la vera crisi e non è costituita da numeri e percentuali ma da persone, con le loro vite e la loro dignità. Persone che non riescono più a sopravvivere con i pochi soldi che hanno in tasca e allora si barcamenano, riducendo all’osso i consumi (a dispetto dell’ossessiva e martellante litania della pubblicità) ed indebitandosi per quanto è loro possibile.
Da questa crisi, recessione o catastrofe, comunque la si voglia chiamare, non si esce ritoccando le cifre del pil e neppure finanziando l’innovazione e la competitività industriale o i ricercatori, né attraverso il taglio dell’ Irap o la tutela dei marchi italiani d’eccellenza o una buona dose di ebete ottimismo Unieuro.
La “Ripresa” quella vera, per inseguire la quale andrebbero poste le basi fin da subito, passa necessariamente attraverso la cruna di un ago, senza che sia possibile prodursi in facili alchimie, falsi contorsionismi di aritmetica e demagogia a buon mercato.
La ripresa impone come prerogativa imprescindibile il ritorno dei redditi delle famiglie ad un potere d’acquisto tale da permettere loro di condurre una vita dignitosa ed essere inseriti nel contesto sociale come soggetti di consumo vivi e vitali.
Tale prerogativa può essere ottenuta solo e solamente attraverso una politica forte e decisa di redistribuzione dei redditi che ripristini la sicurezza economica e la capacità di spesa venute meno in questi anni per gran parte della popolazione.
Senza un intervento radicale di questo genere la situazione continuerà a degenerare, invorticandosi in una spirale perversa dove non avranno alcun peso specifico il debito, il pil o la produzione industriale di un paese ormai collassato.