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Nomadi per decreto

(Questa recensione del volume “Figli del ghetto” di Nando Sigona, edito da Nonluoghi, è uscita sul quotidiano Il Manifesto di sabato scorso, 29 ottobre).
di Giovanna Boursier *

Della cultura e del mondo dei rom e sinti, in Italia, si parla poco. Per questo quando succede bisognerebbe cercare di farlo bene, considerato anche il fatto che si dice di almeno 150mila uomini, donne e bambini che vivono ormai stabilmente nel nostro paese. Ci riesce, indubitabilmente, Nando Sigona, in un libro importante, Figli del ghetto (Nonluoghi edizioni, pp. 156 , euro 11). L’autore, ricercatore a Oxford, studioso di politiche sociali che per anni ha frequentato i campi rom di Napoli, usa un metodo semplice ma efficace: parte dalla cronaca, dai fatti e dai documenti per allargare il campo di inchiesta e restituirci una riflessione attuale che si muove dalle condizioni materiali in cui i rom cercano di sopravvivere. Nei cosiddetti campi-nomadi italiani, costruiti sull’emergenza dei flussi negli anni `60 e `70, ma che continuano a esistere in ogni periferia urbana, dove le comunità cittadine accumulano i propri rifiuti, a perenne monito circa la cultura dell’accoglienza delle nostre amministrazioni.

E infatti il libro non parla dei rom, ma del nostro modo di interagire con loro. E non é un caso che la scrittura di Sigona ruoti intorno a due argomenti fondamentali: la teoria del nomadismo e l’enorme quantità di stereotipi e false definizioni che caratterizzano il nostro rapporto con i rom. Perché i rom, spiega l’autore, li disegniamo noi.

Se per quel che riguarda il nomadismo Sigona puntualizza, ancora una volta, che la maggior parte dei rom nomadi non lo sono più o addirittura non lo sono mai stati – ma noi consideriamo a caso il problema trattando come sedentari quelli che ancora praticano un minimo di mobilità e come nomadi quelli che hanno sempre vissuto in case e villaggi – utilizza poi la stessa teoria del nomadismo per rivelare come la costruzione di «identità burocratiche» risulti essenzialmente funzionale al sistema politico e alla sua azione. Perché attraverso queste identità inesistenti, queste «invenzioni», il sistema politico gestisce e categorizza l’altro, lo straniero. E forse le pagine più interessanti del libro sono proprio quelle in cui l’autore indaga come le identità sono formate, trasformate e manipolate all’interno delle politiche pubbliche e, soprattutto, attraverso le pratiche burocratiche.

Il nomadismo ha costituito per secoli un «trauma cognitivo per le popolazioni europee», i cui vari statuti giuridici hanno sempre associato la mobilità all’essere stranieri e perciò pericolosi. Lo raccontano secoli di persecuzioni orrende che Sigona ripercorre e che sfociano in quella nazifascista. Ma, ancora oggi, chiamare nomade chi nomade non é, vuol dire costringerlo in un certo tipo di esistenza, segregata come estranea, e nella quale risulta difficile riconoscere aspirazioni e modelli culturali autentici che così, intanto, si vanno frantumando. La teoria del nomadismo finisce per essere insieme causa e conseguenza di un processo di misconoscimento della complessità culturale e perciò con l’indirizzare verso soluzioni sbagliate. Tanto che alla fine la coltre di pregiudizi che avvolge i rom trova la sua espressione anche architettonica, nelle politiche abitative elaborate da comuni e regioni d’Italia. Cioé l’essere rom coincide con il vivere nei campi, dove le istituzioni continuano a spingerli da decenni: ghetti che separano, permettendo di cancellare diritti e rinchiudendo chi ci abita in categorie immutevoli utili a non considerarli mai parte integrante della società. Quelli che si ostinano a chiamarli «figli del vento» – scrive l’autore – dovrebbero riflettere sul fatto che «è del ghetto che ormai sono figli». Ed é meglio dirlo visto che la descrizione é già parte della prescrizione.

I rom non sono descritti come sono ma come devono essere per necessità di ordine sociopolitico. Le «definizioni ufficiali sono uno strumento fondamentale in mano al potere politico, non solo per intervenire su quelli che considera `stranieri’», ma anche per tracciare i confini dentro cui ciascuno deve giocare un ruolo. Per questo Sigona ragiona anche sull’identità rom, spesso costretta a costruirsi a sua volta su un’invenzione, quella dei non rom, appunto. Perdendosi, oltretutto, nella delega. Che si prende chi si occupa di rom, cioé enti o associazioni che, volenti o nolenti, finiscono con il determinare la maggior parte delle relazioni tra loro e i gagè. Mediate, dunque, non solo dagli stereotipi ma anche dal lavoro di volontari (o stipendiati) che si trasformano in una sorta di frontiera tra i due mondi, spesso ostacolandone il confronto. Così le istituzioni evitano il conflitto perpetuandone, però, le cause. E promuovono politiche sbagliate e discriminatorie che continuano, ancora oggi, a caratterizzare il nostro paese. Nel libro, attraverso ricostruzioni storiche puntuali, si individuano le conseguenze pesanti che le politiche abitative (i campi li abbiamo costruiti noi), di scolarizzazione (le classi speciali per i bambini zingari negli anni `60), legislative (le leggi regionali) e quindi di integrazione hanno avuto sui rom. Politiche che tengono in ben poco conto i bisogni e le peculiarità di coloro a cui sono indirizzate. Accade facilmente, infatti, che la gestione del «problema zingari» possa fare completamente a meno di loro, le persone in carne e ossa. Parole come partecipazione e autogestione non sono previste. Un copione che si ripete spesso in comunità dove non esistono diritti, i documenti in regola sono solo di una minoranza e le minacce di espulsione costanti. Comunità ricattate, quindi, legittimate a esistere solo nei ghetti che annullano la possibilità di contatto con il mondo esterno.

Se i pregiudizi si perpetuano da oltre cinque secoli, i campi – o ghetti – da almeno trent’anni. Sigona li descrive non solo come luoghi di segregazione che rispecchiano intenzioni politiche ma anche come il prodotto di una sorta di geografia dell’emarginazione mantenuta dall’assuefazione. Pericolosa perché, come ha scritto lo storico francese Bensoussan nel suo libro su Auschwitz, le menti si abituano progressivamente al rifiuto che si trasforma in una norma sociale. E tutto diventa una questione di tempo e di vocabolario.

* Articolo tratto da il Manifesto

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