Berlusconi e i suoi gridano “sciacallo” a chi continua a denunciare (come faceva già un anno fa) le conseguenze di questa guerra, mentre l’Italia vive la tragedia della morte di almeno 18 connazionali che allunga drammaticamente la lista delle vittime nella polveriera irachena.
È il momento del cordoglio. Il pensiero pietoso va innanzitutto ai morti e alle loro famiglie, che questa volta, purtroppo, sono più vicini a noi.
Ma anche in memoria delle vittime è giusto gridare che questa scellerata avventura bellica ha creato un teatro di sangue nel quale oggi si muovono agevolmente i carnefici delle autobombe e delle mine. E la gente, civile e militare, muore. Purtroppo per i morti e per le loro famiglie straziate dal dolore ormai è tardi; ma per il futuro dell’Iraq e del pianeta, va interrotta senza esitazioni questa spirale di morte: serve un cambio di strategia che possa convolgere veramente la comunità internazionale e trovare consensi tra gli iracheni.
Silvio Berlusconi ora chiede silenzio. Si trincera e non accetta le critiche. Ma si permette di rilanciare, di fronte ai morti (e a un lutto che accomuna tutti noi), l’opzione militare; di difenderla come se nulla fosse. Come se quell’inferno (nel quale muoiono altri) non richiedesse nel nome del buon senso di fermarsi a riflettere, a ragionare. Altro che proclami. La politica, quella politica sepolta dai tuoni di guerra dei Bush e dei Blair affiancati da Berlusconi, deve riconquistare uno spazio, sia pure fuori tempo massimo.
L’amministrazione Usa prima accusava la dittatura di Saddam Hussein di possedere armi di sterminio che non sono mai saltate fuori ma per le quali Bush ha premuto il bottone rosso; poi, la Casa Bianca ha cercato di enfatizzare l’ipotesi – anche questa mai dimostrata – di stretti legami tra l’ex despota iracheno e il super-terrorista Osama Bin Laden. Il risultato è che dopo una guerra, non voluta dall’Onu, devastante sul terreno e nelle relazioni internazionali, al Qaeda e gli uomini dello sceicco del terrore sembrano essere arrivati davvero nel pantano di Baghdad.
Silvio Berlusconi ieri ha recitato lo stesso copione di George W. Bush: non si torna indietro, non ci intimidiranno, non ci ritireremo mai eccetera eccetera.
Eppure è proprio in momenti delicati come questi che c’è bisogno più che mai di far parlare le armi della diplomazia e della politica, per cercare una breccia di pace nello scenario plumbeo di autobombe e carri armati che oggi lascia sperare in poco, davvero poco, di buono. Ostinarsi nella linea da Far West voluta dai “falchi” della Casa Bianca e dai loro adepti europei è ottuso e miope.
La situazione è complicata. Al desiderio di liberazione del popolo iracheno opresso da Saddam sta subentrando la frustrazione e l’orrore per i continui bagni di sangue; a questo si aggiunge la fetta di popolazione fedele al regime che ora alimenta la guerriglia; inoltre, sembra ormai accertato che in Iraq si sono infiltrati terroristi legati ad al Qaeda.
Questo scenario va imputato innanzitutto alla scelta di invadere l’Iraq invece di esplorare fino in fondo la via diplomatica, come l’opzione dell’esilio di Saddam Hussein che non pareva del tutto campata in aria.
Ma va imputato anche alla gestione del molto presunto dopoguerra, improntata a una vera e propria occupazione militare che ha esacerbato gli animi, mentre al consiglio di governo iracheno rimane un ruolo quasi cosmetico (senza contare che questo organismo destinato a occuparsi della transizione democratica non è affatto rappresentativo della popolazione).
Oggi bisogna ripensare agli errori. I primi a farlo dovrebbero essere i politici che abusando del mandato popolare hanno trascinato il mondo in un’altra, orribile guerra. Un’autocritica necessaria per valutare le possibili vie di uscita, i cambi di rotta, il coinvolgimento dell’Onu sui cocci della devastazione diplomatica firmata George W. Bush & Co. avvenuta la primavera scorsa al palazzo di Vetro.
Andare avanti alla cieca, cinicamente, è un suicidio oltre che un omicidio continuo (anche oggi, oltre alle vittime italiane e irachene di Nassiryah e americane di Naghdad, sono caduti cinque civili iracheni, tra cui un bimbo, scambiati per ladri da una pattuglia Usa: nel loro camion portavano polli e galline al mercato).
Non è un caso se sulla guerra in Iraq si è spaccato il rapporto anche tra partner europei; non è un caso se Parigi e Berlino ancora oggi si rifiutano di inviare truppe in Iraq.
L’avventura irachena oggi tutto appare, fuorché una modalità seria e produttiva di combattere il terrorismo. Anzi, si rischia di fare di un intero Paese il terreno dello scontro e dell’escalation del terrore.
È il momento di dare ascolto a chi fin dall’inizio indicava la strada della nonviolenza e della diplomazia popolare, del coinvolgimento delle agenzie internazionali sul problema iracheno, che non era comunque un’emergenza, non più di altri regimi sanguinari e liberticidi lasciati agire indisturbati. Lo era, un’ermegenza, l’Iraq, quando bombardava con le armi chimiche i kurdi d Halabja dopo anni di stretti rapporti con gli Stati Uniti.
È il momento di individuare un processo credibile – innanzitutto agli occhi degli interessati – che restituisca nel quadro della tutela internazionale riconosciuta dall’Onu la sovranità agli iracheni per una transizione democratica che non sia segnata dalla spirale del sangue.
Ha ragione Gino Strada, che oggi ha detto che l’attentato di Nassiriya «non deve diventare spunto per nessuna polemica, ma l’inizio di una riflessione per tutti». E ha ragione quando ripete: «Le vite umane che si perdono non servono a dimostrare la validità di una tesi rispetto a un’altra. È solo una sconfitta per tutti: la guerra è esattamente questa cosa».
Ma è proprio da questa sconfitta e da questo dolore che bisogna ripartire dall’articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana: contro la guerra, contro il terrore; nel nome della risoluzione pacifica e popolare dei conflitti.
Anche per questo quell’articolo, oggi così tragicamente calpestato, andrebbe inserito nella nuova Costituzione europea.
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(Riceviamo e pubblichiamo da Beati i costruttori di pace il seguente comunicato stampa)
“Così non si combatte il terrorismo”
L’Associazione Beati i Costruttori di Pace esprime cordoglio, solidarietà e grande riconoscenza a tutti i giovani del contingente italiano e agli iracheni uccisi con loro a Nassiriya, in Iraq.
Sappiamo con quali idealità, dedizione e coraggio molti di loro affrontano queste missioni difficili. Siamo profondamente addolorati e vorremmo comunicare la nostra sincera partecipazione a tutte e singole le loro famiglie.
Ma non possiamo esprimere la nostra solidarietà politica alla scelta fatta dal Governo italiano. Quanto accaduto speravamo non si verificasse, perché gli italiani sono amati in Iraq per tutto quello che hanno fatto per la pace prima, durante e dopo la guerra voluta dal governo di Bush. Ma il servilismo delle scelte di Governo ha portato i nostri carabinieri e soldati alle dipendenze della forza occupante statunitense e ha posto un limite invalicabile. Come forza di occupazione la loro è rimasta una missione di guerra. L’abbiamo denunciato con chiarezza e continuiamo a farlo. Per questo richiamiamo tutte le forze politiche italiane a costruire con gli altri Paesi europei un’altra modalità di presenza internazionale ONU, con il rientro delle forze di occupazione e governando la transizione con un chiaro riconoscimento della sovranità del popolo iracheno.
Non è vero che Bush vuole sconfiggere il terrorismo; sono altri gli scopi reali. I fatti dicono che questo metodo unicamente militare concentra e incentiva il terrorismo internazionale e ottiene l’effetto contrario.
Tutti gli appelli all’unità nazionale contro il terrorismo in questo momento rischiano di risultare ipocriti e ingannare i cittadini. Noi in Italia sappiamo che il terrorismo può essere superato solo all’interno della legalità con il consenso e lo sforzo congiunto delle istituzioni e dei cittadini.
Per questo con dolore affermiamo che la responsabilità politica delle vittime uccise nell’attentato di Nassiryia ricade sulla scelta fatta dal Governo italiano.
Esprimere solidarietà sincera in questo momento per noi significa invertire immediatamente la rotta.
Beati i costruttori di pace