di Alberto Castelli
In questi anni, tra opinionisti, uomini politici e, qualche volta, anche tra studiosi italiani è in atto una discussione sullo stato di salute della democrazia nel nostro Paese. Le posizioni estreme di questa polemica sono rappresentate, da un lato, dagli entusiasti, per i quali in Italia non c’è alcun rischio di logoramento democratico; e dall’altro, da quanti sono convinti che ormai, essendo il potere politico nelle mani di un uomo che detiene anche un notevole potere in campo economico e quasi tutto il potere mediatico, si sia instaurato in Italia un regime che non ha nulla di liberaldemocratico.
Accade spesso di sentire questi “pessimisti” sostenere esplicitamente che è in atto una deriva verso la dittatura, il fascismo e che è necessario condurre una lotta radicale – come novelli antifascisti – contro gli affossatori della democrazia. Hanno ragione i “pessimisti”? Ci troviamo davvero di fronte a una nuova dittatura?
Se non si può negare che un pericolo per la democrazia in Italia esista, appare evidente che il paragone tra l’Italia di questo inizio millennio e quella di Mussolini sia ingenuo, utile forse a scaldare gli animi di quanti provano un intimo bisogno psicologico di individuare chiaramente il “Nemico Assoluto”, ma fuori luogo se si desidera comprendere la situazione attuale nella sua specificità, con i pericoli che essa comporta e con le possibilità che può aprire. Perché allora questa tendenza a vedere nell’attuale situazione politica niente meno che la riedizione del regime fascista?
Una delle cause potrebbe essere la difficoltà di dare un nome a qualcosa di radicalmente nuovo. Mancando cioé le categorie utili a dare un nome alle preoccupanti trasformazioni in atto oggi in Italia, si tende a ricondurle all’esperienza politica negativa per eccellenza che il nostro Paese ha vissuto nella storia recente: il fascismo.
Se questo è vero, occorre un’opera di chiarificazione e di elaborazione di concetti adatti a spiegare in modo esauriente quanto accade oggi in Italia, e anche altrove. Proprio a quest’opera contribuisce il saggio di Colin Crouch, che prende le mosse da una distinzione importante e innovativa: quella tra democrazia e postdemocrazia.
Con il primo termine, l’Autore intende un assetto politico in cui “aumentano per le masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso il voto ma con la discussione e attraverso organizzazioni autonome, alla definizione delle priorità della vita pubblica” (p. 6). In altri termini, per Crouch è possibile definire democratico un regime politico solo se esso coinvolge i cittadini nel processo decisionale non solo in occasione delle elezioni, ma a vari livelli e momenti della vita pubblica.
Una tale definizione di democrazia è evidentemente molto esigente. In base ad essa, infatti, la maggior parte dei regimi politici occidentali di oggi, che tengono conto dell’opinione dei cittadini solo nei momenti delle elezioni, potrebbero essere considerati non democratici.
Come si possono definire allora questi regimi? Se non sono democrazie, non sono neppure dittature perché vi si svolgono elezioni regolari, è presente un certo grado di partecipazione popolare, e lo Stato non è del tutto impermeabile alle istanze provenienti dal basso. Per classificare questi regimi Crouch propone il termine postdemocrazia, che dà il titolo al suo libro e che egli usa per indicare non solo il caso italiano ma una tendenza comune a tutti gli Stati occidentali. Precisamente la postdemocrazia è un regime in cui “anche se le elezioni continuano a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi” (p. 6).
Non solo, una caratteristica fondamentale delle postdemocrazie è che il momento delle elezioni è l’unico in cui i cittadini possono influenzare la politica perché, per il resto, le decisioni sono prese “in privato”, tra i membri della classe di governo e le élite che rappresentano gli interessi economici più forti in campo. Nelle postdemocrazie, insomma, la rappresentanza della volontà dei cittadini tende a essere negata, mentre le decisioni sono prese dai vertici della classe politica e delle lobby economiche.
Crouch dedica pagine interessanti a ricostruire le dinamiche che hanno portato gli Stati occidentali a configurarsi come postdemocrazie. In termini generali, egli sostiene che la trasformazione delle democrazie in postdemocrazie è caratterizzato, in primo luogo, dal prevalere degli interessi delle minoranze che detengono il potere in campo economico sugli interessi che possono essere condivisi dalla gran massa dei cittadini; e in secondo luogo, da un processo in cui le élite hanno sempre più successo nel manipolare e guidare i bisogni dei cittadini.
Il risultato di queste dinamiche non può essere definito come un regime non democratico (e tanto meno come dittatura fascista) perché non viene meno del tutto la preoccupazione della classe politica di fronte ai cittadini elettori; ma nello stesso tempo non può neppure essere definito come democratico, in quanto la partecipazione dei cittadini è saltuaria, passiva e tendenzialmente eterodiretta.
Crouch, come si è detto, definisce questi regimi postdemocrazie; cioé assetti politici e istituzionali in cui l’impalcatura formale della democrazia resta in piedi apparentemente solida, ma in realtà le decisioni possono essere prese dai vertici delle strutture economiche e politiche senza tenere conto (o tenendone conto solo in minima parte) degli interessi dei cittadini.
Ma quali sono le conseguenze concrete del consolidamento dei regimi postdemocratici? In generale si ha, da un lato, l’abbandono delle politiche volte a garantire l’uguaglianza e la sicurezza sociale; dall’altro, l’ingresso della logica di mercato nelle sfere che in precedenza erano gestite dallo Stato secondo logiche solidaristiche.
Più in particolare, tra le caratteristiche di una società postdemocratica Crouch indica la riduzione del welfare state a un istituto di aiuto per quanti hanno bisogni estremi, cessando quindi di essere un diritto fondamentale legato alla cittadinanza. Si ha, inoltre, la crescita del divario tra ricchi e poveri, con la tassazione che persegue sempre meno l’obiettivo di ridistribuire la ricchezza.
Un’altra conseguenza è l’asservimento della politica agli interessi di pochi potenti. Infine, le postdemocrazie sono caratterizzate dal progressivo disinteresse delle classi meno agiate per la politica, che viene percepita come un ambito estraneo, sul quale non è possibile incidere in modo efficace.
Su un piano strettamente sociologico, Crouch nota che anche i partiti tendono a trasformarsi secondo linee ben definite, adattandosi alla fase postdemocratica e, nello stesso tempo, favorendone il consolidamento. Il partito politico tipico della postdemocrazia, è diverso dai partiti di massa, che sono in qualche misura aperti alle istanze provenienti dalla base e che tendono a coinvolgere i loro elettori. Il partito postdemocratico, infatti, è diretto da una élite chiusa, in grado di autoriprodursi, “lontana dalla sua base (…) ma ben inserita in mezzo a un certo numero di grandi aziende, che in cambio finanzieranno l’appalto di sondaggi d’opinione, consulenze esterne e raccolta di voti, a patto di essere ben viste dal partito quando questo sarà al governo” (p. 84).
Si tratta di un modello di partito che, secondo Crouch, è ben esemplificato proprio nel nostro Paese da Forza Italia.
Nell’ultima parte del suo lavoro, Crouch discute i modi in cui è possibile rallentare, se non fermare, lo slittamento verso la postdemocrazia. In primo luogo, a giudizio dell’Autore, si tratta di limitare il potere delle grandi aziende multinazionali, diminuendo la loro influenza sulle procedure democratiche degli Stati. Una tale impresa risulta molto difficile non solo per il potere che le multinazionali possiedono di per sé, ma anche perché la maggior parte di esse hanno sede negli Stati Uniti, la maggiore potenza mondiale, e quindi possono contare sull’appoggio del governo di quel Paese.
In questa situazione, non sembra probabile ottenere dei risultati concreti a breve scadenza; tuttavia, Crouch ha una certa fiducia nel ruolo che potrebbe assumere un’Unione europea opportunamente rafforzata, nel limitare il potere e il predominio economico degli Stati Uniti e, di conseguenza, delle multinazionali. Un’altra linea sulla quale si può tentare di resistere alla tendenza postdemocratica riguarda il ruolo dei cittadini e dei partiti.
Crouch giudica fondamentale a questo proposito che i cittadini facciano pressione dall’esterno sui partiti in modo che questi non possano divenire interlocutori esclusivi delle lobby economiche, ma debbano restare in qualche misura ancorati alla rappresentanza della società civile.
Un terzo argine alla diffusione della postdemocrazia può essere rappresentato, secondo Crouch, dal decentramento amministrativo, che implica una maggiore vicinanza del potere politico ai cittadini e, di conseguenza, una maggiore permeabilità alle loro istanze.
Colin Crouch, Postdemocrazia, Roma – Bari, Laterza, 2003, pp. 148.