Il primo gennaio di quest’anno è entrato in vigore il “Codice in materia di protezione dei dati personali” (Legge Delega 127/2001), una raccolta di varie norme in materia di riservatezza che segna il punto di arrivo della Legge 675 del 1996, la cosiddetta “legge sulla privacy”, con la quale per la prima volta in Italia si affrontavano questi temi. Il Decreto è un corposo malloppo di quasi duecento pagine che spazia dalla sicurezza dei sistemi di archiviazione dei dati personali ai codici deontologici di varie categorie professionali, dall’accesso ai documenti amministrativi all’uso degli archivi da parte delle forze di polizia e della magistratura.
Senza entrare nel dettaglio dei singoli articoli basti segnalare che, come spesso accade, le “buone” intenzioni dell’estensore del Codice si scontrano con la realtà di un sistema sociale che ha fatto del controllo e della trasparenza (nel senso che allo stato non si può nascondere alcunché) due dei principali cardini della sua politica di autoconservazione. E così, tutte le belle promesse sulla possibilità di mantenere qualche momento della propria vita al riparo dal paranoico occhio statale si infrangono invariabilmente davanti alle necessità del controllo e della repressione.
Per fare un esempio, l’Art. 6 (Disciplina del trattamento) prevede che: “1. Le disposizioni contenute nella presente Parte si applicano a tutti i trattamenti di dati, salvo quanto previsto, in relazione ad alcuni trattamenti, dalle disposizioni integrative o modificative della Parte II.”
Ovviamente la “Parte” in questione si riferisce ai dati archiviati nei computer delle forze di polizia che sono esentate dal rispettare le norme, come chiaramente specificato nell’Art. 53, del quale riportiamo il primo comma:
“1. Al trattamento di dati personali effettuato dal Centro elaborazione dati del Dipartimento di pubblica sicurezza o da forze di polizia sui dati destinati a confluirvi in base alla legge, ovvero da organi di pubblica sicurezza o altri soggetti pubblici per finalità di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, prevenzione, accertamento o repressione dei reati, effettuati in base ad espressa disposizione di legge che preveda specificamente il trattamento, non si applicano le seguenti disposizioni del codice: a) articoli 9, 10, 12, 13 e 16, da 18 a 22, 37, 38, commi da 1 a 5, e da 39 a 45; b) articoli da 145 a 151.”
Nulla di nuovo quindi in una normativa che serve solo a dare l’illusione di una riservatezza capace di scendere nei minimi particolari in alcuni settori e lasciarne completamente scoperti altri.
Ma qualcosa doveva essere sfuggito alla vigile opera dei novelli guardoni per cui, con la solita tecnica del “colpo di mano festivo”, attuata alla vigilia dello scorso Natale, il Governo ha pensato bene di modificare sostanzialmente uno degli articoli del Codice, ancor prima che entrasse in vigore, quello riguardante la durata della conservazione dei dati.
L’Art. 123 infatti prevedeva che i dati dei flussi di comunicazione potessero essere conservati per una durata non superiore a sei mesi e, solo in caso di una eventuale richiesta della magistratura, anche per un ulteriore periodo di trenta mesi, come previsto dall’Art. 132.
I Ministri Stanca e Castelli hanno deciso di inserire nel decretone natalizio una norma che invece prevede la conservazione dei dati per almeno sessanta mesi (30+30), e questo – naturalmente – al fine di salvaguardare le necessità della “lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo”.
Lo scorso anno, la retata contro le “nuove BR” si è basata, stando ai comunicati ufficiali, proprio dall’analisi del traffico telefonico di cellulari e schede e per alcuni degli arrestati le uniche prove in mano agli inquirenti sono esclusivamente delle telefonate dei cui contenuti nulla si può sapere. Inutile far rilevare l’assurdità di trasformare in prove di reato dei collegamenti telefonici che, per quanto improbabile, potrebbero anche solo essere frutto di una casualità: chi oserebbe utilizzare una scheda telefonica trovata per strada e che magari è già servita per una chiamata “fuorilegge”?
Ma c’è anche il lamento sollevato dai gestori del traffico di dati, che si dovranno accollare per legge l’archiviazione di quantità sempre maggiori di informazioni, il che si tradurrà in un aumento delle spese di gestione senza una diretta contropartita economica, a meno di non voler scaricare sull’utenza anche questi ulteriori costi. Il problema è di particolare urgenza per gli Internet Provider che, si solito, conservano i dati relativi ai collegamenti solo per pochi giorni e solo per ragioni tecniche e che invece adesso dovrebbero attrezzarsi per custodire (in modo “sicuro”) quantità ingenti di dati.
Ma il problema più grave è che, incrociando i dati dei flussi di informazione è ormai possibile ricostruire nei dettagli la cerchia delle relazioni di vita che ognuno di noi intesse con gli altri: telefonate fatte e ricevute, messaggi di posta elettronici spediti e arrivati. E poco importa che, come si sono affrettati a chiarire i Ministri, tali controlli non riguarderanno i “contenuti” delle comunicazioni.
Questo ennesimo passo verso il tentativo di controllo totale della società vede, purtroppo, una debole opposizione e non solo da parte della sinistra riformista, fatto scontato, ma anche da parte di ampi settori del movimento di opposizione che – pericolosamente – sottovalutano questo specifico aspetto della lotta contro il sistema di sfruttamento che sta diventando sempre più necessaria e, col passare del tempo, sempre più difficile.
Articolo tratto dal settimanale Umanità Nova