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La seduzione autoritaria…

In un Paese formalmente democratico può capitare che manifestazioni di dissenso politico, quali un corteo in piazza, siano oggetto di attenzioni particolari delle forze dell’ordine, sollecitate o quantomeno assecondate dal potere politico. Teste sanguinanti e braccia doloranti sotto i colpi dei manganelli – magari sferrati utilizzando il manico, che è più duro; ma c’è chi predilige il calcio del fucile – sono purtroppo una costante della storia repubblicana. Una storia che non ha saputo evitare le vittime innocenti delle “politiche” dell’ordine pubblico e che – nel groviglio delle “deviazioni” istituzionali – non ha risparmiato al Paese vere e proprie stragi che, pur in forme diverse, evocavano tragicamente il crudele scintillio delle baionette di Bava Beccaris e della repressione nel sangue dei moti operai, socialisti o anarchici di un secolo fa. Si dirà che erano altri tempi; eppure quel filo nero autoritario che attraversa la storia dell’Italia unita non sembra lì per caso. Quasi che ancora oggi fossimo qui a pagare il prezzo, caro e violento, di un patrimonio genetico e culturale (ma che risponde a precise dinamiche economiche di sottomissione) di cui avremmo fatto volentieri a meno per il bene di molti e la rabbia di pochi.
Dalla storia alla cronaca il passo è breve, troppo: è una prossimità che inquieta e indigna. L’evento simbolo di questa traiettoria violenta della democrazia italiana è Genova 2001, quando le forze dell’ordine diedero corso a ingiustificabili assalti contro manifestanti nonviolenti anti-G8, fino ad arrivare alle torture subite da centinaia di giovani fermati senza una ragione o a un pestaggio notturno ai danni di una settantina di persone che dormivano dentro una palestra. Sgomento nello sgomento, per giustificare questa spedizione punitiva fabbricarono le prove: una bottiglia molotov portata nella palestra da un poliziotto, una coltellata a un giubbotto mai sferrata dai giovani o anziani no global ospiti dell’improvvisato dormitorio, gli attrezzi di un cantiere aperto dentro la scuola Diaz esibiti la notte stessa dalla polizia. Servivano a confermare che là dentro non c’erano ragazzi, ragazze e qualche nonnetto partigiano stanchi dopo una giornata di cortei e lacrimogeni: picconi, mazze e piedi di porco dimostravano ineluttabilmente che trattavasi di sovversivi (di “malfattori”, avrebbero detto gli italici governanti un secolo prima). Si tentava di salvare il salvabile, dopo il bagno di sangue, spacciando militanti nonviolenti per il manipolo di sedicenti black bloc responsabili di atti vandalici in città.
Dentro quella palestra c’era, tra gli altri pericoli pubblici, un giornalista del Resto del Carlino, Lorenzo Guadagnucci, che poco dopo raccontò l’intera vicenda e il contesto in cui maturò nel bel volumetto “Noi dellla Diaz” (Berti/Altreconomia) e in seguito, nel breve saggio “Distratti dalla libertà” (Berti/Altreconomia) svolse una prima analisi “politica” del processo storico che aveva reso possibile quella pagina da regime militare. Ora Guadagnucci torna con un nuovo pamphlet nel quale allarga lo sguardo e mette il dito sulla piaga: “La seduzione autoritaria. Diritti civili e repressione del dissenso nell’Italia di oggi” (Nonluoghi Libere edizioni, 2005, 148 pagine, 9 euro). La lettura degli eventi e del loro precipitare negli ultimi anni è lineare e disarmante.
Basterà osservare, come fa l’autore, che il ministro dell’Interno all’epoca, Claudio Scajola di Forza Italia, non solo mantenne il suo incarico (lo perderà più tardi per altre ragioni), ma appena tre anni dopo compariva fra le personalità di un dibattito promosso dalla Festa nazionale dell’Unità, proprio a Genova, per parlare d’altro. Come se nulla fosse. Scajola, il ministro di destra del manganello facile e delle promozioni dei poliziotti indagati, invitato alla grande kermesse del principale partito della sinistra come se la ferita del G8 non sanguinasse ancora; come se quel governo e quegli apparati non avessero colpito al cuore la democrazia italiana. Qualcuno se n’è ricordato e la vicenda si è trasformata in una pagina piuttosto imbarazzante per i dirigenti della Quercia, che nel nome del molto presunto “riformismo” a volte paiono dimenticare l’abc del loro stesso bagaglio politico.
Basterà osservare, aggiungiamo noi, che un altro ministro, stavolta di centrosinistra, che aveva il controllo delle forze dell’ordine pochi mesi prima, durante il Global Forum di Napoli, Enzo Bianco, ha potuto proseguire indisturbato la sua inossidabile carriera politica nonostante uno scenario di piazza per molti versi simile a quello genovese. Bianco nella primavera del 2005 è stato il candidato del centrosinistra a sindaco di Catania; ma la sua “affidabilità” come capo del Viminale non gli è bastata a farsi eleggere dai suoi concittadini; tuttavia abbiamo ragione di ritenere probabile una sua funesta apparizione in un eventuale governo unionista nel 2006. Con buona pace dell’indignazione per l’uso eccessivo della forza poliziesca da parte di uno Stato che non chiede nemmeno scusa alle sue vittime.
Per tornare al saggio di Guadagnucci, l’autore elenca una serie di fatti politici tutti riconducibili a quella nuova tensione autoritaria che attraversa l’Italia e che dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti riceve forti impulsi anche dall’estero. Il tentativo (riuscito per ora a metà) della Lega Nord di dare contorni ambigui alla legge sulla tortura (qualcuno ricorderà l’approvazioen di un emendamento che punisce solo le sevizie “reiterate”: massacrare di botte una volta durante un interrogatorio può bastare; la seconda andrebbe evitata).
Oppure la proposta, pure di matrice leghista, di abbattere i limiti della legittima difesa e consentire al proprietario di un terreno di sparare a chiunque vi si inoltri con fare minaccioso. O ancora, l’involuzione della polizia di Stato con la fine dell’esperienza riformatrice e nuovi sussulti militaristi; oppure la militarizzazione dei vigili del fuoco; o i tentativi più sfacciati di insabbiare le inchieste a carico dei responsabili delle violenze operate dalle forze dell’ordine a Genova; o la tendenziale criminalizzazione del dissenso servitaci quasi ogni giorno spensieratamente dall’attuale ministro dell’interno Giuseppe Pisanu; o ancora il gioco perverso sulle paure popolari connesse con il rischio criminale o con lo scontro culturale con cittadini stranieri. Il tutto, naturalmente, con la gran parte dei mass media disponibili a fare da rassicurante cassa di risonanza di queste interpretazioni politiche del Paese reale.
Guadagnucci punta l’indice certamente contro i dirigenti di istituzioni della Repubblica (come le forze dell’ordine) incapaci di fare un passo indietro nel nome del bene comune e della Costituzione; ma l’autore lancia il suo J’accuse soprattutto all’indirizzo del mondo politico indifferente, complice o ispiratore del pugno duro. Guadagnucci, noto giornalista critico e attento a ciò che si muove nella società per costruire relazioni più eque, libere e giuste, si rivolge con toni caustici in particolare alla parte che egli reputa la più sensibile al tema della libertà di espressione e della garanzia dell’esercizio dei diritti democratici: la sinistra dalla quale si aspetterebbe ciò che non arriva.
L’autore sottolinea la sproporzione allarmante tra la gravità dei fatti di Genova e un dibattito politico rapidamente scemato per lasciare spazio ai polveroni quotidiani che inceppano la dialettica istituzionale nel nostro Paese. Possibile che nel paese che si accalora per le nozze di Totti e che per mesi si straccia le vesti sulle visioni teologiche di Rutelli, non ci sia qualcuno che vede il pericolo di questa incontrollabile deriva autoritaria? Possibile che in tutto il Parlamento siano sempre le solite quattro le voci che si levano per denunciare il disastro in corso e i rischi a venire su questo terreno? Quale democrazia degna di questa definizione può permettersi di lasciare a poche voces nel deserto il compito di mantenere alta la tensione su una questione di fondo quale è la libertà di espresssione del dissenso? Possibile che a Cosenza un gruppo di giovani contrari al capitalismo siano stati imprigionati mediante il ricorso a reati di opinione previsti in epoca fascista e che il Parlamento (di questi tempi così “sensibile” all’attività della magistratura) non si sia ribellato? Possibile che la sinistra non si renda conto che siamo di fronte a un’emergenza?
Guadagnucci è preoccupato e le pagine del suo libro ci dimostrano che si tratta di un’inquietudine ben riposta. Un tunnel che si fa ancora più buio se si tiene conto di un notevole effetto indiretto delle politiche repressive: garantire più ampi margini di manovra al pensiero unico neoliberista. E a chi su questo incontestabile paradigma economico che accentua i costi sociali costruisce la propria fortuna a danno degli altri: gli sfruttati (o i loro fiancheggiatori) che devono pure tacere. Quasi uno scenario da sciopero ottocentesco.

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