[Dal quotidiano Liberazione del 12 ottobre 2005]
Un fantasma si aggira per la globalizzazione: lo sciopero. Gli ideologi liberisti evidentemente ancora una volta si sono sbagliati quando hanno pronosticato, assieme alla fine della storia, quella del conflitto di classe. Scioperi e conflitto sociale ci sono ancora e fanno paura. La fanno così tanto che in tutto il mondo padroni e governanti, che sempre più spesso coincidono, si impegnano per renderli impossibili. Da ultimo lo sta facendo il governo australiano, che per il momento batte tutti. Il governo conservatore di quel paese infatti in una volta sola vuole realizzare la piena libertà di licenziamento, la fine dei contratti collettivi, il divieto degli scioperi. I sogni di Berlusconi, della signora Tatcher, e di tutte le destre in una volta sola. Il tutto naturalmente condito di affermazioni sulla competitività, sul libero mercato, sulla flessibilità. Il moderno fascismo liberista non usa il manganello, ma gli indici di borsa. Lo fa però allo stesso modo con la stessa violenza contro i lavoratori.
Quello dell’Australia è oggi un caso estremo, radicalizzato, ma si inserisce su un’onda lunga che colpisce ovunque il mondo del lavoro. L’attacco al diritto di sciopero, in particolare, è tornato di gran moda. C’è da riflettere su questo. In fondo le lotte non sono così diffuse e generalizzate da spiegare provvedimenti così drastici. Eppure ovunque si dice basta con gli scioperi. Lo fa anche la Confindustria italiana che nel suo ultimo documento propone sfacciati “patti costituzionali”, che hanno al centro la limitazione del diritto di sciopero. Poco tempo fa in Svizzera un accordo per i ferrovieri ha sancito la rinuncia allo sciopero da parte dei sindacati per tutta la durata del contratto. Subito in Italia la grande stampa ha esaltato la modernità dell’intesa, rivendicandone l’applicazione qui da noi. Negli anni Ottanta la signora Tatcher ha reso illegale in Gran Bretagna lo sciopero di solidarietà e il governo Blair si è ben guardato da mettere in discussione questa norma. In Germania, dove pure il sindacato ha ancora un ruolo importante, lo sciopero nazionale è vietato dalla legge e i padroni usano oggi questa limitazione per non applicare più i contratti nazionali. Insomma o con il bastone delle leggi autoritarie, o con la carota degli accordi di concertazione, ovunque i padroni vogliono impedire gli scioperi. Perché proprio ora che le imprese non sono mai state così forti rispetto ai lavoratori? Evidentemente perché non si sentono così sicure. Non lo sono per quello che vogliono fare e per quello che temono che succeda a causa di quello che fanno. Se ci si concentra tanto contro il diritto di sciopero, cioè contro lo strumento con cui i lavoratori reagiscono a soprusi e ingiustizie, è perché si pensa di doverne fare un bel po’. I padroni, da quegli autentici marxisti che sono sempre stati, hanno una chiara visione di cosa la competizione sfrenata nel mercato globale provochi sulle condizioni di lavoro. E sanno che con questo libero mercato i lavoratori sono sempre meno liberi e hanno sempre meno diritti e ne temono la reazione. Anche in Italia la richiesta degli industriali di colpire gli scioperi è il segno di cosa abbiano davvero in mente costoro.
Ma c’è una seconda ragione e riguarda il ruolo stesso del lavoratore nella moderna organizzazione produttiva. Contrariamente a quanto si vuole far credere mai come oggi la prestazione del lavoratore è strategica per le imprese. Il mercato sempre più veloce, la competizione sempre più spinta richiedono aziende sempre pronte a far fronte all’imprevisto. Come lo fanno, con l’intelligenza e la flessibilità dei lavoratori. Mai come oggi le imprese hanno bisogno dei lavoratori, ma mai come oggi pretendono di avere questa responsabilità, questa efficienza, questa qualità del lavoro, gratuitamente. I lavoratori stanno accumulando un enorme potere contrattuale, ma le imprese vogliono pagarli sempre di meno. E allora quando non bastano le leggi sulla flessibilità, quando il rifiuto della contrattazione, le delocalizzazioni e i licenziamenti non sono sufficienti, si passa al più antico degli strumenti: la repressione delle lotte. I padroni e i loro governi sono consapevoli che se non reprimono i lavoratori, questi prima o poi riusciranno ad ottenere ciò che spetta loro con tanti saluti ai vari programmi speculativi, agli investimenti finanziari, alle ricchezze sfrontate. Dopo la guerra preventiva di Bush i padroni mettono in campo la repressione di classe preventiva. Ci si prepara oggi a colpire i conflitti sociali che inevitabilmente si diffonderanno man mano che la globalizzazione estende le ingiustizie, ma anche la rabbia e la voglia di lottare contro di esse.
Le scelte del governo australiano sono dunque la punta dell’iceberg di un attacco vasto e diffuso al conflitto sociale. Solo un’altra politica economica e sociale, solo il rifiuto del modello di sviluppo fondato sulla competitività estrema, può garantirci dalle tentazioni autoritarie. Che come sempre, partono dallo sciopero e poi arrivano a mettere in discussione tutta la democrazia.
* [Questo articolo è tratto da Liberazione del 12 ottobre 2005 ed è disponibile online nel sito del quotidiano insieme ad altre informazioni sulla sintomatica vicenda australiana, che poco sembra interessare la gran parte degli altri mass media italiani]