di Gabriele Lo Iacono
“Good school discipline should be instilled through the mind, not the behind”.
R. Fathman, Presidente della National Coalition to Abolish Corporal Punishment in Schools/NCACPS
Da un lato gli Stati Uniti esportano metodi e teorie psicopedagogiche di altissimo livello, dall’altro in troppe scuole americane permane una tradizione controproducente e profondamente incivile: la punizione corporale.
Forse non tutti in Italia sanno che la scuola è l’unica istituzione statunitense in cui la punizione fisica è sancita legalmente e che essa viene inflitta per tradizione con una apposito strumento, il paddle, in appositi locali dell’edificio scolastico da insegnanti “specializzati”. In Italia questi metodi sono proibiti dal 1860 e tutti i Paesi industrializzati del mondo oggi proibiscono l’uso di punizioni corporali, fatta eccezione per ventidue stati americani e certe regioni australiane.
Secondo un recente rapporto del Dipartimento dell’Educazione statunitense, nell’anno scolastico 1999-2000 negli USA sono stati sottoposti a punizioni corporali 342.038 alunni. Il 22% delle legnate sono state inflitte dagli insegnanti texani, mentre nel Mississippi ha preso colpi di paddle un bambino su dieci.
Vengono puniti più spesso principalmente i bambini provenienti dalle famiglie meno abbienti, i membri di minoranze e i bambini disabili. Inoltre frequentemente la punizione corporale non è l’ultima risorsa dell’insegnante esasperato bensì il primo provvedimento per piccoli problemi di disciplina. “La priorità, per il sistema educativo americano”, è stato scritto una quindicina di anni fa sul Christian Science Monitor (3/21/89), “consiste nel trovare modi efficaci per coinvolgere i bambini di oggi nell’emozione di apprendere. La paura del dolore non ha nulla a che vedere con questo processo”.
È proprio vero. Ignorare fattori motivazionali come l’interesse per l’apprendimento o la qualità del rapporto educativo è un errore grossolano, straordinariamente diffuso anche nella scuola italiana, che rischia di vanificare ogni tentativo di insegnamento efficace; ma l’uso delle punizioni fisiche è ancora più nefasto. Come tutte le punizioni severe, ingiustificate, sistematiche e non accompagnate da metodi educativi positivi, sono un grave errore etico e educativo che rischia di compromettere profondamente la salute e lo sviluppo personale dell’individuo e del cittadino. Infatti i bambini picchiati tenderanno a perdere fiducia e interesse per gli insegnanti, la scuola e l’istruzione. Troppo spesso saranno cattivi educatori dei loro figli e genitori abusanti, cittadini violenti e delinquenti, persone escluse e psicologicamente disturbate.
Le punizioni fisiche, oltre a essere pericolose (qualche bambino è morto a causa delle percosse educative), generano ansia, rabbia, sfiducia, avvilimento e – cosa che le rende ancora più insensate – non di rado alimentano gli stessi comportamenti a cui vorrebbero ovviare e ne fanno emergere di nuovi altrettanto inadeguati.
È comprensibile che la violenza, specialmente se usata nel luogo istituzionale deputato all’insegnamento, genera altra violenza: essa insegna attraverso l’esempio modelli di comportamento aggressivo. Mentre i bambini a scuola dovrebbero imparare, specialmente attraverso il modello degli educatori, a risolvere a parole problemi e conflitti interpersonali, a controllare la tendenza animalesca a rispondere alla frustrazione e al senso di impotenza con l’attacco o la vendetta, a riconoscere e rispettare il punto di vista altrui, a mediare, a escogitare creativamente soluzioni comuni senza perdenti – tutti concetti abbondantemente teorizzati proprio dalla ricerca psicologica e pedagogica americana.
I ricercatori statunitensi hanno prodotto e continuano a produrre ed esportare teorie e metodi di insegnamento molto avanzati. In USA si fa molta più ricerca che in Italia. Tuttavia è inutile possedere strumenti e modelli pedagogici avanzati se poi si trascurano i principi morali fondamentali e i dati di buon senso.
Si può fare il programma educativo migliore, si possono programmare con grande attenzione le tappe di un percorso didattico adattato sui bisogni dell’alunno, ma alla fine il successo o l’insuccesso di un progetto educativo dipenderà in grandissima parte dal rapporto di stima, di fiducia, di comprensione, di piacere reciproco nel lavorare insieme che si instaura fra l’insegnante e l’alunno. È molto difficile insegnare qualcosa a qualcuno contro la sua volontà e, quando un insegnante comincia a diventare antipatico o insopportabile al suo alunno, riuscirà a realizzare ben poco. Una delle grandi contraddizioni degli Stati Uniti è proprio questa: da un lato è una nazione modello in quanto a tradizione democratica, dall’altro gli americani sembrano un popolo che fatica collettivamente a rinunciare ai metodi violenti. Lo testimoniano, per esempio, l’uso della pena di morte, la facile vendita e diffusione delle armi da fuoco, le pratiche di tortura sistematica dei prigionieri in Iraq o altri piccoli segnali come la commercializzazione, segnalata pochi anni fa su ”la Repubblica” (6 agosto 2000) di “Death Row Marv” un pupazzo a pile di venti centimetri che muore su una piccola sedia elettrica: il bambino aziona la leva e Marv si contorce, il suo petto si gonfia e si inarca, gli occhi si accendono di rosso e un filo di fumo si sprigiona dal cranio, sotto la calotta metallica. Poi muore. Nelle istruzioni per l’uso del “gioco”, raccomandato per bambini di età superiore agli undici anni, si legge che Marv ha violentato e ucciso la sua ragazza, una prostituta chiamata “Goldie”.