Nonluoghi Archivio Israele-Palestina. Il muro della sete

Israele-Palestina. Il muro della sete

di Massimo Tessitore *

La questione dell’acqua nel conflitto mediorientale non è più un tema per addetti ai lavori, e sulla stampa anarchica altri ne hanno parlato con maggiore competenza (si veda l’articolo di Serena Marcenò sul n.4 di “Libertaria” di fine 2003). L’opportunità di una conferenza all’Università di Palermo del prof. Ziad Mimi, docente di Water Management all’Università di Birzeit nei Territori occupati in Cisgiordania, ci ha offerto l’occasione di ritornarvi sopra con qualche ulteriore dettaglio esplicativo delle poste in palio nella guerra israelo-palestinese.
Innanzitutto si è svelato l’arcano dello scavalcamento a destra che i coloni del Likud, una minoranza agguerrita in senso letterale e non metaforico, hanno effettuato sul premier destro Sharon nel recente referendum interno, rigettandone l’accordo di fuoriuscita dalla striscia di Gaza. L’ubicazione delle colonie da evacuare in via definitiva, infatti, insiste non casualmente su acquiferi costieri di lunga data che sopravvivono tra le dune a bassa profondità, il cui pompaggio alimenta non solo i pozzi a disposizione delle colonie, ma anche le opportunità idriche per le comunità ebraiche in pieno deserto del Negev, alle spalle cioè della Striscia di Gaza, con un sovraconsumo per le entità demografiche israeliane – col rischio di drenare tanta acqua (anche per usi stravaganti, dato il clima, quali piscine, campi di prato all’inglese, ecc.) da abbassare la faglia di acqua dolce lasciandola infiltrare dall’acqua salata del vicino mar mediterraneo – che riduce di contro la disponibilità per quel milione e passa di palestinesi rinchiusi nel carcere a cielo aperto che è Gaza.

Ziad Mimi ci ha anche illustrato non solo le cifre di disponibilità di acqua per i cari usi sia ai palestinesi che agli israeliani, evidenziando la sproporzione in base a diversi fattori di equa ripartizione (criteri demografici, imprenditoriali, abitativi, ecc.), ma anche come allocare tali risorse in maniera distributiva giusta contemperando le esigenze di sopravvivenza di ciascun abitante quelle terre semi-aride tra il Mediterraneo e il fiumiciattolo Giordano al confine con la Giordania.
Circa il 30% delle disponibilità di acqua nella regione proviene dalle Alture del Golan, che Israele ha strategicamente occupato sin dal 1967, e ora capiamo non certo per tenere sotto scacco Damasco a tiro di cannone (lo teneva sotto scacco anche prima dell’occupazione e della colonizzazione degli altipiani confinanti con la Siria).

Infine, migliore luce si è data al percorso zigzagante del Muro che si distacca sensibilmente dalla linea Verde, che già lineare non era, che segna la divisione ufficiale, ai sensi dell’armistizio del 1967 che a livello internazionale non riconosce tuttora l’occupazione della West Bank operata dalle truppe di Moshe Dayan in appena sei giorni. Oltre a ghettizzare in vari bantustan una serie di città palestinesi – emblematico lo strangolamento di Qalqilya, circondata dal muro e da cancelli aperti esclusivamente dalle 6 di mattino alle 18 di pomeriggio solo per recarsi al lavoro sulle terre confiscate o separate violentemente dal tracciato del muro recintato e esteso con corridoi militarizzati e altre sofisticate apparecchiature di controllo – il percorso perimetrale del Muro si incava talvolta per consentire agli insediamenti coloniali di appropriarsi di diversi pozzi di acqua potabile utilizzati per le esigenze di vita e di lavoro dei villaggi arabi.
Questa realtà, che le mappe mostrateci da Ziad Mimi evidenziano meglio di qualunque discorso, disegna sul campo una sovranità limitata da parte dell’emergente stato palestinese ai sensi della Road map sostenuta dal Quartetto (Usa, Russia, Unione europea e Nazioni Unite). D’altra parte, il gioco al massacro del regime democratico di Israele ormai delinea anche le strategie di contrapposizione di una comunità internazionale che fosse fedele alle numerose normative che condannano Israele (dal non riconoscimento dell’occupazione manu militari della West Bank e di Gerusalemme capitale dello stato ebraico, per esempio, al divieto di colonizzazione o deportazione con abbattimento di case secondo gli articoli della Convenzione di Ginevra del 1949). Infatti la storia ci offre il caso di un altro regime che aveva fatto dell’apartheid il proprio stile di dominio, ossia il Sudafrica, che definiva terrorista Nelson Mandela condannandolo a decenni di galera esattamente come oggi i tribunali della democrazia israeliana seppelliscono con sei ergastoli Barghouti. Solo l’isolamento internazionale e il boicottaggio del Sudafrica ha posto le premesse culturali e politiche per il crollo a medio termine del regime discriminatorio e razzista; si ha ragione di pensare che un analogo itinerario possa risultare altrettanto fruttuoso per le popolazioni coinvolte in tempi più rapidi, data la condizione economica non certo paragonabile tra Israele e Sudafrica, mentre solo il peso politico del maggiordomo a stelle e strisce che copre la prima marca una differenza dal caso della seconda nazione.

[Articolo tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova: www.ecn.org/uenne]

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