di PIETRO FRIGATO
La vicenda giudiziaria appena conclusa con una sentenza di assoluzione degli imputati al processo di primo grado per strage e inquinamento ecologico non è un problema giuridico. Il diritto e le istituzioni giuridiche non possono essere lo strumento che da solo, isolato dal contesto cognitivo, emotivo e normativo dominante negli orientamenti di pensiero e di azione, può sensibilizzare il sistema economico e politico al rispetto della vita umana (politicamente definito).
Stupidaggini presupposte – del tipo: la magistratura può portare ad una situazione generalizzata di “mani pulite” contro la politica e la burocrazia corrotte e qualche imprenditore “costretto” a corrompere – sono state all’origine della farsa di tangentopoli e di molte banalità fatte circolare sui mezzi di comunicazione di massa in quel periodo. Se ne è nutrita la saponosa retorica occhettiana sulla moralizzazione della politica e un certo giustizialismo di personaggi di dubbio profilo, come Orlando e i vertici nazionali della rete, oppure il tragicomico Di Pietro.
Per cercare di gettare qualche luce su quello che intendo dire, conviene richiamare una sottile considerazione istituzionale di Perroux su un aspetto profondo connesso con le valutazioni socialmente dominanti del benessere economico:
Quali che siano le credenze espresse, professate, quali che siano le ricostruzioni ideologiche dei rapporti di forza ufficialmente accettati e diffusi, il mercato funziona come se le reazioni di fondo – vissute, non parlate – ammettessero che la distruzione e il deterioramento delle vite umane sia tollerabile, e come se i rapporti di forza effettivi risultassero tali per cui i privilegiati si trovino in condizione di poter perpetrare la loro posizione relativa rispetto agli individui la cui vite vengono distrutte o deteriorate. Constatazione valida tra gruppi all’interno di una stessa nazione e altresì tra nazioni o popoli (Perroux 1991, 437).
E’ troppo facile prendersela con la dirigenza o con gli azionisti di maggioranza. Definire il problema degli operai morti e malati di Porto Marghera e del degrado ambientale indotto dagli impianti petrolchimici in modo tale per cui, al solito, i cattivi imprenditori assenteisti o il management, al fine di massimizzare i ricavi netti attesi, hanno congiurato per non eliminare i rischi per la salute degli operai e dell’ambiente circostante e, giudicati in modo piattamente procedurale, hanno pure preso la ragione. Questa opzione è sottesa alle letture dominanti che vengono offerte a sinistra sul problema (si vedano ad esempio gli articoli comparsi su “La Repubblica” o “Il Manifesto” dopo la sentenza). Che questa rappresentazione degli eventi all’origine delle morti bianche di cui sappiamo e per cui nessuno è stato ritenuto responsabile sia largamente inadeguata diviene chiaro già solo nella misura in cui si presti fede ad alcune considerazioni di Gabriele Bortolozzo, l’operaio-ricercatore che ha per primo sollevato il problema della morte evitabile a Porto Marghera, sul ruolo del sindacato nella vicenda:
Il timore occupazionale, sul quale giocano azienda e sindacato, è un dato di fatto da tenere nel dovuto conto. Una volta in fabbrica c’era paura soltanto dei padroni, ora anche dei sindacalisti, del comitato di fabbrica, come dimostrano le telefonate e le lettere anonime che arrivano dalla fabbrica. (…) Anziché rispondere alle tante domande che si pongono i familiari dei lavoratori, preferiscono attaccare, a volte velatamente, a volte apertamente la Magistratura e gli autori della ricerca e dell’esposto, senza mai entrare nel merito del problema. Certi sindacalisti si sono distinti per cinismo nel trattare la morte operaia in fabbrica: non ne parlano, non ne discutono, non vogliono trattare il problema con i dibattiti o con un dialogo. Invitano i parenti a non testimoniare alla Magistratura di quanto è avvenuto ai loro congiunti. Si trincerano dietro al solito: “La Magistratura sta indagando. Aspettiamo!” (Bortolozzo in Bettin 1998, p. 155).
Il problema, pesante come un macigno, è esattamente questo: le istituzioni funzionano in modo tale per cui ci sono degli aspetti che vengono dati per scontati, sui quali non si discute, che rimangono sottotematizzati e che, in ragione della forza automatica che in tal modo essi acquistano, agiscono con efficacia e godono di una presenza consolidata negli orientamenti delle persone e delle organizzazioni. Intanto: il sindacato è un’organizzazione la cui vita dipende dall’esistenza di posti di lavoro; la chiusura di una fabbrica fa scomparire insieme alla possibilità di riproduzione materiale di gruppi di individui determinati, carriere, posizioni, trampolini di lancio e burocrazie sindacali; inoltre esiste un assunto tacito che è sotteso alle opzioni concrete del sindacato: esso, ben oltre ogni retorica lacrimosa e telemarketing, ha il suono cupo della formula “l’occupazione vale bene una dose accettabile di mortalità evitabile” (oligarchicamente definita e possibilmente occultata). In tal modo il sindacato, di fatto, si arroga il diritto di accettare e far passare una soglia di tolleranza della morte altrui non negoziata, socialmente irriflessa, definita con inaccettabile arroganza. Che, qualora interrogati sulle proprie preferenze relative nel trade-off posto di lavoro versus salute, gli stessi operai risponderebbero favorevolmente in termini di occupazione potrebbe anche essere dimostrato empiricamente ma non eliminerebbe in ogni caso il problema delle collusioni e delle ostruzioni emerse da parte sindacale non solo a Porto Marghera.
Infatti, occultando il conflitto tra obiettivi (pieno impiego versus salute) che attraversa lo stesso sindacato su queste questioni ordinariamente sul tappeto soprattutto in tempi di crisi economica nel quadro degli ordinamenti dell’economia capitalistica, il sindacato ha sì perseguito efficacemente il proprio fine di organizzazione di rappresentanza a tutto campo dei diritti dei lavoratori, proponendo un’immagine di sé televisivamente e giornalisticamente coerente, ma ha mancato di porre in rilievo il problema del ricatto istituzionalizzato tra bisogni minimi (di reddito versus di salute) negli stessi paesi a capitalismo avanzato. Altri aspetti connessi con la crisi del sindacato nelle realtà tardocapitalistiche andrebbero approfonditi, sebbene l’incompetenza di chi scrive suggerisca di trascurarli.
I giornali di questi giorni non riportano dichiarazioni dei vertici nazionali delle tre confederazioni. Questo silenzio parla da solo. Chi scrive sa bene che le differenti organizzazioni sindacali lavorano anche sul tema della sicurezza. Sono recenti alcuni iniziative di carattere nazionale. Tuttavia, pur mantenendo l’importanza decisiva dell’esistenza di organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori, sembra esistere un’ombra gelida nella gestione di questa attività. Il capitalismo genera crisi di occupazione in modo strutturale, la tutela dei posti di lavoro diviene particolarmente onerosa nelle fasi discendenti del ciclo economico e bisogna fare scelte. Se la crescita dell’economia è ridotta o addirittura negativa, il potere negoziale stesso dei lavoratori si riduce e con esso la qualità di una pluralità di standard connessi con l’attività lavorativa. Il sindacato, sia localmente (nel caso di singole industrie) che in quello connesso con interi rami industriali o economie ha sempre avuto una ‘funzione di utilità’ politica centrata sulla preservazione del pieno impiego (e, in via subordinata, della tutela salariale). Quando la morte evitabile per incidenti o malattie professionali rappresenta un intralcio reale o potenziale per questo fine prioritario, essa cessa di esistere sull’agenda degli impegni sindacali quando non diviene una minaccia da rimuovere. Sono discorsi orribili che mi permetto di fare, forse sbagliando di molto, in ogni caso sentendo la necessità che se ne parli. Ho spesso la cattiva idea di un sistema sociale in cui le spinte fondamentali in direzione umanizzante tendono a contrapporsi e a frantumarsi reciprocamente. Tra ambiente, tutela della salute operaia e pubblica e tutela dei livelli occupazionali e salariali si opta e si è sempre optato per i secondi: ma quanto legittima è questa scelta quando essa può generare perdite incommensurabili come le morti evitabili? Siamo sicuri che su questo tema fastidioso sia bene continuare a far finta di nulla? A fare gli gnorri, o a cercare limiti nella sentenza, il giorno dopo la brutta vicenda giudiziaria di Venezia? Non sarebbe forse il caso di fare un poco aprire gli occhi alla gente, fuori dal vergognoso e finto matrimonio di rossi con verdi con liberisti e via discorrendo, e far capire il tipo di scelte indotte in un sistema economico guidato dal sistema di iniziativa privata. E ciò ben prima e ben al di là della crescente finanziarizzazione dell’economia e delle ripercussioni in termini di inasprimento delle disuguaglianze che essa comporta.
Questo era vero nell’”età dell’oro” dell’economia come in quella più buia che, mutatis mutandis, si è delineata a partire dagli anni Ottanta in tutti i paesi avanzati.
Petrolchimico di Porto Marghera
APPELLO
Giustizia e Verità
per le vittime.
Risanamento ambientale.
La sentenza del Tribunale di Venezia sulle morti da Cvm al Petrolchimico di Marghera e sui danni ambientali non rende giustizia alle vittime e non aiuta a capire la verità di un dramma storico e sociale enorme.
La città, il Paese devono reagire, riprendere la parola dando voce a chi ha sofferto, a chi non deve essere dimenticato, guardando al futuro con una nuova coscienza.
Per questo bisogna continuare l’impegno, a tutti i livelli.
Sul piano legale, sostenendo il ricorso in appello del pubblico ministero e chiedendo che lo facciano tutte le istituzioni pubbliche (Comune, Provincia, Regione, Stato).
Sul piano della memoria storica, acquisendo gli atti del processo e pubblicizzandone i passaggi principali, affinchè tutti sappiano.
Sul piano sociale e politico, perché si rimetta al centro dell’attenzione il diritto alla salute, a un lavoro che non avveleni, a un ambiente pulito.
Perché si esca da un modello di sviluppo rischioso e inquinante, e non vi siano nuovi lutti.
Per lasciare in eredità alle nuove generazioni un mondo migliore di questo.
UNA FIRMA PER SOSTENERE IL RICORSO IN APPELLO
Per informazioni e distribuzione materiali :
Casa dei Diritti – Santa Margherita, Venezia – tel. 041.2771344
Laboratorio Morion Venezia – tel. 320.0206642
Ca’ Farsetti, Venezia, gruppi consiliari comunali Verdi – tel. 041.2748173; Rif. Comunista tel. 041.2748172
Associazione Ya Basta ! e Radio Sherwood c/o C.S. Rivolta Marghera – tel. 041.9316
Altre informazioni al sito : digilander.iol.it/sosmarghera
“Parte Civile”
Comitato per la giustizia e la verità su Marghera
C/o Municipio di Mestre, via Palazzo, tel. 041.2749466, fax 041.980132
Con il contributo dei gruppi consiliari di Venezia e regionali del Veneto di Rif. Comunista e dei Verdi