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Il traffico mortale e la complicità imprese-ente pubblico

[Questo articolo è la versione integrale di un intervento pubblicato dal quotidiano l’Adige di Trento dove l’autore è redattore di Esteri]
di Zenone Sovilla *
Non c’è dubbio: in pochi decenni la mobilità umana si è trasformata, per molti versi, in una sorta di patologia sociale. Tuttavia, quando si ragiona di questo fenomeno drammatico e degenerativo, che ci nega l’aria da respirare e ci espone a rischi letali, è conveniente interrogarsi soprattutto sulle cause, sugli effetti e costi sociali (malattia, morte, danni ambientali), sulle contromisure. Sennò si finisce con l’alimentare il sinistro circolo vizioso del traffico motorizzato che di regola viene già sostenuto fervidamente dalle politiche pubbliche sui trasporti e dalle strategie economiche delle imprese di mercato: elargitrici di strumenti gratuiti le prime, destinatarie dei medesimi le seconde. In altre parole, non c’è nulla di più infausto e deleterio che rispondere all’esplosione del traffico privato riproponendo all’infinito nuovi progetti stradali. Il traffico, ormai palesemente fuori controllo tanto nei centri urbani quanto sulle arterie periferiche, non va assecondato: va contrastato e ridotto mediante strumenti alternativi, nella prospettiva di una rifondazione umanizzante della mobilità.
Il fenomeno è assai complesso, ma almeno alcune sue dinamiche paiono riducibili a una serie di meccanismi derivanti dalla fusione maligna delle pressioni dei soggetti economici e delle scelte urbanistiche degli enti territoriali. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati, in particolare, da un paio di trasformazioni che si sono via via tradotte in espansione dei profitti per varie tipologie d’impresa e in linee di perdita pesanti per la collettività: il «decentramento centralizzato» delle attività produttive e commerciali, da un lato, e il ricorso alla tecnica aziendale del «just in time» con l’eliminazione tendenziale del magazzino, dall’altro.
Nel primo caso, l’espulsione delle industrie, di imprese artigiane e commerciali (e in qualche caso di uffici della burocrazia pubblica) dalle città verso poli periferici ha costretto un numero crescente di persone a muoversi di più per andare al lavoro, a qualche sportello oppure a fare la spesa. E questi spostamenti avvengono principalmente in automobile, considerato che le reti dei trasporti collettivi e alternativi (come la bicicletta) non si sono sviluppate al ritmo dei nuovi insediamenti economici; anzi. Il che spiega come mai ogni italiano (dati del Rapporto degli Amici della Terra riferiti al 1997) spende mediamente ogni anno 4 mila euro di costi sociali connessi con la circolazione dei veicoli privati. Ma questa evoluzione spiega in parte anche perché il nostro Paese è ormai un primatista per diffusione dei mezzi a motore, avendone ormai uno ogni due abitanti (neonati e ultracentenari compresi) e due ogni tre se si considerano anche quelli commerciali, le moto e i ciclomotori.
Ma se le strade sono sempre più intasate dalle vetture, a suscitare inquietudine ancora maggiore sono gli autotreni, sempre più grandi, che percorrono indisturbati autostrade e statali in un viavai frenetico e pericoloso (come testimoniano le ricorrenti tragedie causate da questi collossi mobili, vittime i viaggiatori in automobile, i pedoni o i ciclisti). È un interminabile corteo di targhe, dalla Lituania alla Turchia, dalla Spagna alla Finlandia, che gira nel continente europeo e che sembra avere una predilezione per l’Italia, già assediata dall’enorme traffico commerciale interno. La pericolosità della condivisione dello spazio tra i Tir e le vetture è comparabile a quella tra queste ultime e i ciclisti, una convivenza ad alta tensione: troppa la sproporzione tra le due tipologie di mezzi di trasporto, elevato il rischio di una carneficina, «predestinate» le vittime.
Dietro questo apparente impazzimento camionistico (per cui a Trento si beve il latte delle mucche dello Schleswig-Holstein e a Stoccolma lo yogurt di Salonicco) c’è, tra l’altro, una precisa politica aziendale di origine giapponese: la minimizzazione dei costi del magazzino e del capitale congelato nelle scorte di materie prime o di prodotti finiti e l’utilizzo in sua vece del sistema dei trasporti (soprattutto su gomma) nell’approvvigionamento della catena produttiva o commerciale. Un sistema che richiede massima flessibilità distributiva sul territorio: la ferrovia è sostanzialmente inadeguata e dunque i nuovi magazzini dell’impresa di mercato sono i Tir, che arrivano al posto giusto e proprio al momento giusto: impunemente just in time, appunto. Il resto (del traffico) lo fanno le delocalizzazioni e la frammentazione produttiva nel nome della massimizzazione dei profitti aziendali (mentre l’occupazione si fa sempre più sottopagata/precaria – ufficialmente «flessibile» – e ciò nonostante le imprese italiane scappano da un Paese a basso costo del lavoro, se comparato ai partner europei, in cerca di manodopera probabilmente semigratuita all’estero). È interessante, fra l’altro, notare che il mondo dell’autotrasporto italiano si caratterizza per condizioni di lavoro spesso irrispettose dei diritti-doveri del personale (subordinato, parasubordinato, atipico e altro) mettendo così a rischio la sicurezza degli autisti e degli altri utenti della strada. Va menzionato, peraltro, che la maggioranza dei lavoratori del settore non sono dipendenti delle aziende, ciò coerentemente con la tendenza nazionale che ha visto il reddito da lavoro subordinato in Italia crollare dal 50,6% del Pil, nel 1972, al 40,6%, nel 2000 (fonte Cnel).
Le politiche infrastrutturali e fiscali a livello nazionale e locale generalmente favoriscono l’orientamento del mercato a muoversi su gomma, nonostante i gravissimi costi sociali che ne derivano: danni ambientali e territoriali (che quando sono reversibili vengono riparati con i denari di noi tutti), ma innanzitutto malattie e morti ad andamento irregolare: ne è colpito di più chi guadagna (sempre) di meno, perché è maggiormente esposto e non può dotarsi di strumenti difensivi (come evitare una certa strada a una data ora, cambiare residenza o lavoro in cerca di aria pulita e di meno rischi in fabbrica o nel traffico, viaggiare a bordo di enormi e protettive formula uno cammuffate da fuoristrada/Suv, montare le triple finestre eccetera).
L’esito di questa mutazione, che ha radici negli anni del boom, è raggelante: solo per l’inquinamento da traffico, in Italia, si va da stime di 3500 (Agenzia nazionale per l’ambiente-Oms, 2002) a 15 mila (Amici della Terra-Fs, 2000) morti l’anno; per gli incidenti, nel 2000 soltanto i decessi ufficialmente registrati erano 6649 (Istat). I malati in Italia a causa dell’inquinamento da traffico a motore sono stimati dall’Oms in 66 mila l’anno (e la metà sono bambini colpiti dall’asma); i feriti negli incidenti stradali (fonte Aci-Istat, 2003) nel 2002 sono stati 338 mila (dei quali il 10% circa riporta invalidità permanenti). Enormi, come si potrà intuire, le ricadute sulle finanze pubbliche.
Questo rapido excursus ha posto l’accento su due dinamiche macroscopiche al punto tale da far sorgere un interrogativo disarmante: mentre il fenomeno prendeva corpo, si insediava e si dilatava a dismisura, come reagivano le autorità pubbliche? Forse non si rendevano conto della traiettoria patologica del sistema dei trasporti privati? Difficile. I costi umani, infrastrutturali e ambientali sono talmente evidenti da far ritenere poco probabile una svista così lungamente reiterata (fino al giorno d’oggi). Appare più plausibile che le autorità si rendano conto ma che non trovino la cosa scandalosa e meritevole di interventi d’emergenza. D’altra parte, questa complicità si può considerare «normale» in un contesto, come quello attuale, pervaso ormai dalle logiche mercantili, nel quale istituzioni di consenso e di potere (politica, organismi pubblici, scuola, università, mass media) aderiscono pressoché appieno alla visione del mondo attraverso le lenti dell’impresa di mercato della quale sono acritici e volenterosi promotori e catalizzatori sociali. Le frasi ricorrenti, nei palazzi depositari del potere rappresentativo, riguardano i sostegni e le riduzioni delle tasse alle imprese più che i diritti e la dignità dei lavoratori o la sopravvivenza dei ciclisti.
Succede, così, che nel nome di un approccio privatistico alle cose del mondo (business is business e vinca il più forte), si veicolano indifferenza e distrazione di fronte a temi epocali (come il traffico mortale, ma anche le condizioni e l’orario di lavoro, la democrazia partecipata, la iniqua distribuzione del reddito eccetera), ignoranza e ostilità nei riguardi dei legami solidaristici (odio per le tasse come se non si traducessero in servizi e altro, amore per la competizione selvaggia chiamata «meritocrazia» o «mercato» e dunque per le privatizzazioni, più o meno sommerse, anche di settori essenziali, con crollo della qualità dell’offerta e dei diritti degli «atipici» operatori non più pubblici ma «appaltati» e deregolamentati), tensione gratificante verso dimensioni consolatorie microcosmiche (dai parossistici investimenti in Borsa all’unione siamese con l’automobile), idolatria della concorrenza tout-court (come se non ci fossero limiti o controindicazioni anche a questa dimensione «purificatrice», come se soggetti che mirano al mero profitto economico non accentuassero i comportamenti scorretti e dannosi – per gli altri, noi altri – pur di raggiungerlo in una gara continua e senza esclusione di colpi).
Ecco, per uno spettatore immerso nel paradigma neoliberale, il traffico non è più un fenomeno esiziale, una macchina mortale cui porre un freno esercitandosi in creatività e decisionismo collettivo nel nome del diritto universale alla salute. No, il traffico è introiettato da noi tutti e solo ogni tanto, sull’onda emotiva delle stragi o dei disagi più gravi, si ha qualche sussulto istituzionale che viene presto neutralizzato. Altro che attribuire alle malattie, alle morti, al malessere psicologico degli essere umani priorità politica prima ancora che economica. E pensare che i costi causati dal traffico, da quello commerciale in particolare, sono facilmente intuibili e computabili: per ostacolare il fenomeno forse basterebbe trasformarli in altrettante tasse o imposte a carico delle imprese che originano i danni e che, al contrario, esigono con insistenza riduzioni della pressione fiscale.
L’ente pubblico tende ormai apertamente a disattendere la sua funzione livellatrice nella distribuzione del reddito da esercitare principalmente mediante le politiche fiscali e sociali (quello da rendita, per esempio, è tassato la metà di quello da lavoro). Le forze politiche di vario colore che si ispirano ai dettami delle intellighenzie neoliberali praticano o studiano riduzioni del prelievo fiscale e delle garanzie sociali che avvantaggiano i benestanti e il mondo delle imprese le quali contestualmente esasperano il trasferimento all’esterno dei costi che finiranno per gravare – in forme diverse – sui lavoratori già impoveriti dall’andamento salariale (potere d’acquisto a -19,7% per gli impiegati e -16% per gli operai, Rapporto Eurispes 2003) e dai tagli al welfare state attuati e annunciati, che tra l’altro si risolvono anche in depressione dei consumi nelle classi sociali più colpite.
Le esternalizzazioni di costi aziendali sulla collettività caratterizzano fortemente anche la mobilità. Tuttavia, i segnali che vengono dalle istituzioni, a tutti i livelli, sono in gran parte sconfortanti, come la recente bocciatura europea (naturalmente nel semestre di presidenza italiana) del sistema degli ecopunti per il transito delle merci al Brennero. Tuttavia, la complicità dell’ente pubblico, per anni scarsamente percepibile dall’opinione pubblica, oggi si disvela più facilmente, come testimoniano le mobilitazioni popolari contro l’invasione del traffico (soprattutto pesante) che si registrano anche in Italia. In Austria, poi, come si ricorderà, nell’aprile scorso la gente scese in strada per dire basta: «Pasqua attiva, precedenza alla salute» fu una manifestazione durata alcuni giorni (con adesioni anche italiane) nella quale pedoni, ciclisti, mamme e papà con bimbi nei passeggini bloccarono temporaneamente le principali arterie del Tirolo, della Carinzia e della Bassa Austria chiedendo, innanzitutto, il trasbordo su ferrovia delle merci in transito e il divieto per alcune tipologie di trasporto. Le istituzioni austriache hanno risposto sostanzialmente appoggiando queste richieste.
E da noi? Prendiamo la Valsugana, in Trentino, un caso in qualche modo paradigmatico di esplosione di traffico commerciale o derivante dal pendolarismo e dal turismo. L’ente pubblico non ha saputo prevenire l’esplosione, ampiamente prevedibile, del traffico privato e dei suoi danni alla salute pubblica, all’ambiente naturale e alle finanze collettive. Nemmeno a posteriori ha messo in atto un qualsivoglia deterrente concreto del trasporto commerciale. Non ha dato corso a iniziative palpabili per una mobilità alternativa dei pendolari e degli altri cittadini. Allo stato attuale l’intervento in essere più visibile è l’inutile e dannoso tunnel di Martignano, da 150 (o più) milioni di euro, un favoloso regalo al trasporto su gomma, un incoraggiamento a continuare su questa strada di malattia e di morte. Il resto sono parole e progetti per lo più minimi o vaghi (e comunque sia, in gravissimo ritardo), tra l’apertura di una sede di rappresentanza all’estero e qualche campagna di promozione turistica (casi di servizio gratuito alle imprese private che nemmeno ringraziano).
Alcuni esempi. È paradossale che all’alba del 2004 la ricca e finanziariamente privilegiata Provincia autonoma di Trento non sia stata capace di creare uno straccio di percorso ciclabile tra la Valsugana e il capoluogo; ma nemmeno tra Pergine e Civezzano, dove ci si muove a rischio Tir, strade dissestate e cantieri continui per rendere la vita più facile alle auto cui è dedicata la massima parte del suolo pubblico (per inciso, con quale stravagante criterio l’ente pubblico verifica che dopo scavi sulla strada il manto stradale venga ripristinato a regola d’arte, considerato che di solito ciò non avviene?).
Le ciclopiste si costruiscono di norma laddove servono per il relax e il tempo libero; non come un’alternativa praticabile alle code e agli incidenti stradali. A proposito di Civezzano, che conosco meglio perché ci vivo, è singolare l’abbandono cui questa località è stata destinata dalle società del trasporto pubblico (complici evidentemente gli amministratori locali): basterebbe un collegamento di due-tre chilometri per allacciarla al servizio urbano di autobus di Trento o a uno snodo extraurbano importante. Basterebbe uno sforzo minimo, una navetta – magari elettrica – che attraversi le frazioni. Invece rimangono i pochi pullman che si fermano prima di cena. E a Civezzano, luogo in crescita demografica e soprattutto edilizia, le piste ciclabili sono evidentemente ritenute dagli amministratori pubblici uno strumento inutile della mobilità: forse si ritiene che la popolazione sia particolarmente sedentaria o coraggiosa e invulnerabile, pronta cioè a gettarsi sulla provinciale frequentata da «bisonti» carichi di porfido o a percorrere strade secondarie da Far West, piene di buche che costringono i ciclisti a traiettorie pericolose e a rischio caduta/scontro con le automobili, sempre più spesso gigantesche e veloci fuoristrada scure.
Sempre in Valsugana, sotto la pressione abitativa delle persone «espulse» da Trento e dai suoi prezzi esorbitanti (complice la «partita di giro» dei mutui agevolati che ingrassano gli operatori/speculatori del mercato), non di rado si favorisce la costruzione di nuovi complessi residenziali nelle frazioni, senza pensare contestualmente a creare servizi e infrastrutture, per limitare l’impatto dei nuovi insediamenti sul traffico locale. Se una piccola frazione all’improvviso raddoppia o triplica gli abitanti, per prevenire un continuo pendolarismo motorizzato bisogna – prima di tutto – pensare a rinforzare e incentivare il trasporto pubblico (anche con abbonamenti di prova, gratuiti, combinati con altri mezzi eccetera), a creare ciclopiste, a favorire l’apertura in loco di piccoli esercizi commerciali. Ma soprattutto, prima di dare il via a nuove lottizzazioni, bisognerebbe chiedersi che senso ha questa aggressione vorace al territorio e indagare sulla condizione del patrimonio edilizio esistente.
E che dire del distretto del porfido? L’altro giorno, per fare un esperimento, ho deciso di percorrere in bici la strada da Albiano al lago di Santa Colomba in orario di attività delle cave. Ho concluso che la mia presenza era incompatibile con quella delle decine di camion che mi hanno superato o che ho incrociato inebriandomi dei loro gas di scarico; ma era incompatibile anche con le nuvole di polvere che mi hanno avvolto lungamente aggiungendo fatica alla fatica del mio respiro in salita. Allora, delle due, l’una: o su una strada pubblica è permesso circolare in bicicletta senza mettere a repentaglio la salute e l’incolumità fisica oppure si crea una via alternativa. A meno che non si ritenga che sul diritto universalistico di muoversi nello spazio pubblico prevalga quello privatistico-imprenditoriale di cavare il porfido inibendo la mobilità. La realizzazione di una ciclopista (cioè il suo finanziamento), per esempio, potrebbe essere una clausola (certo, anche provocatoria) del contratto di concessione dello sfruttamento dei giacimenti, per chiamare le aziende a porre in parte rimedio ai disagi che causano alle persone. Sul porfido, naturalmente, si potrebbe aprire un capitolo enorme dedicato più in generale alla diffusa devastazione ambientale e alle minacce alla salute pubblica derivanti da questa attività: pagine imbarazzanti, come molte altre, per una Provincia autonoma che vede da anni anche i Verdi al governo, ma che ama promuovere, come le cave, la caccia e i ben finanziati impianti di risalita.
D’altra parte, un altro sedicente ecologista, Reinhold Messner, già europarlamentare nel posto che fu di Alex Langer, ora è anche consulente del governo Berlusconi per la realizzazione di un’altra opera distruttiva: il prolugamento dell’Alemagna, l’autostrada Venezia-Belluno, nel cuore delle Dolomiti orientali, verso l’Austria.
Ma c’è pure chi, in questo bel quadretto di catrame, lamiere e polvere, qualche settimana fa, probabilmente non sapendo come ingannare una serata d’estate, ha tirato il sasso nello stagno: chiudiamo Trento alle automobili. Bella idea, forse l’abbiamo avuta in molti: come sarebbe più vivibile il capoluogo, a misura d’uomo, di donna e di bambino. Ma, di là dai buoni propositi, sarebbe interessante sapere come s’intende fare. Una raggiera di funicolari dal centro verso la periferia e le colline? La metropolitana diffusa? I tappeti mobili? I parcheggi intermodali, le automobiline e le bici elettriche? Navette elettriche a ciclo continuo, con tanto di portabici? I nodi d’interscambio privilegiato per i residenti in centro? La trasformazione di tutte le strade in ciclopiste? L’autobus gratis per tutti? Bene, ne guadagnerebbero innanzitutto la salute e le casse pubbliche. Ma stiamo parlando di un piano decennale, una rivoluzione epocale. Prima va elaborato confrontandolo con il punto di vista delle popolazioni, in cerca di una sintesi degli interessi confliggenti; poi si può metterci il titolo: Trento senza automobili. Perché cominciare dal titolo a volte porta male. Ciò che si nota davvero, per ora, è il cantierone del tunnel di Martignano oppure il servizio scadente di trasporto per la zona industriale o per molte periferie.
L’ente pubblico non ha troppo coraggio né molta creatività. Eppure i fronti d’intervento intelligente per ridurre malattie, morti, disagi e danni ambientali sono molteplici. Una via di uscita dall’incubo della mobilità in versione neoliberista appare la contestuale introduzione di correttivi all’andamento del traffico (con limitazioni del transito e della velocità, nuovi divieti per recuperare spazi ai mezzi collettivi, introduzione di pedaggi e di tasse mirate sui costi sociali causati dagli spostamenti motorizzati) e l’investimento in strumenti di mobilità alternativa che siano veramente capaci di attirare le persone ormai ubriache di auto (molti oggi non concepiscono più uno spostamento oltre i 500 metri, se non su quattro ruote) offrendo loro un’altra possibilità che sia più sicura, salutare ma anche comoda, cioè tra l’altro con passaggi frequenti e fino a notte fonda.
È evidente che in tutto questo il mondo delle imprese, che ha la gran parte della responsabilità originaria, avendo potuto dar libero sfogo ai suoi naturali impulsi del profitto, dovrebbe essere chiamato a una conversione a trasporti diversi per qualità e ridotti per quantità.
Ma qualcosa mi dice che questo salto di paradigma è di là da venire. Ci sarà lo scorrevole megatunnel che sta facendo tremare Martignano; poi, probabilmente, ci saranno le code anche lì dentro. Perché da qualche parte le strade miliardarie, nuove e vecchie, devono pure incrociarsi, dopo aver monopolizzato il territorio.
Nel frattempo è auspicabile una mobilitazione spontanea delle popolazioni contro questo massacro legalizzato e per la costruzione di una mobilità alternativa. Quanto ai detentori di potere che non avevano capito, per loro fortuna quei comportamenti omissivi (o peggio) sono difficilmente perseguibili sul piano giudiziario. Ma nelle coscienze?

* Questo articolo è la versione integrale di un intervento pubblicato
l’8 agosto 2004 dal quotidiano l’Adige di Trento dove l’autore è redattore di Esteri.

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