di Zenone Sovilla *
Ho partecipato alla seconda delle due giornate informative sul tema dei rifiuti promosse in settembre dal comitato di cittadini che, sotto il nome di Nimby, ispirato da analoghe lotte civili americane, si batte contro il progetto di un inceneritore a Trento. L’iniziativa popolare, in questo caso patrocinata e ospitata dal Comune di Lavis, ha innumerevoli meriti.
Il primo è il tentativo quasi disperato di rianimare la democrazia desertificata dall’ente supremo che tutto finanzia e controlla: la Provincia autonoma, grande madre della blindatissima idea di bruciare ciò che resta delle attività quotidiane e dei consumi dei trentini assecondando così gli appetiti di costruttori e gestori di questi mega-impianti.
Informazioni scientifiche finora negate alla collettività locale sono state rese disponibili da un comitato di cittadini preoccupati di una scelta grave, adottata nella torre d’avorio da delegati del popolo che, quantomeno, interpretano con creatività eccessiva il mandato elettorale democratico. La prima impressione avuta a Lavis è che, tanto più dopo il referendum boicottato, l’operazione «terra bruciata» attorno a chi si oppone all’incenerito(re)-pensiero abbia avuto effetti ragguardevoli: relatori venuti da fuori, politici e amministratori pubblici invitati ma assenti (con la lodevole eccezione del Comune ospite), pressoché latitanti le associazioni ambientaliste locali. «Anche per ricorrere al Tar abbiamo dovuto cercare avvocati fuori provincia», rivelano quelli di Nimby lasciandoci di sasso.
La seconda impressione è che gli interventi degli studiosi convenuti a Lavis, tutti di fama e credibilità incontestabili, confermino la fondatezza delle prime, elementari riflessioni che vengono in mente quando si sente parlare di un inceneritore a Trento: che si tratti di un progetto del tutto incompatibile con politiche serie di riduzione, riciclaggio e riuso dei rifiuti. O l’uno-unico o le altre-multiple. Inceneritore è sinonimo di rottura del ciclo biologico, ha tagliato corto il professor Gianni Tamino, docente di biologia all’Università di Padova e già europarlamentare (poi sacrificato dai Verdi regionali per fare spazio al neoconsulente del ministero delle Infrastrutture Reinhold Messner).
Tamino ha spiegato con chiarezza quali e quanti sono i rischi per l’agricoltura derivanti dalla presenza di un inceneritore. Rischi legati tra l’altro alla imprevedibilità delle sostanze che un simile impianto deve bruciare (come noto, nessuno può conoscere in anticipo tutto ciò che finisce in un cassonetto), nonché all’effetto di accumulazione che subiscono alcuni contaminanti nel transito vegetali-animali-esseri umani e nel processo di progressivo inquinamento dei terreni. Ma le problematiche sono svariate: oltre alla diffusione di sostanze nocive, come le diossine trovate nel latte prodotto in 35 dipartimenti francesi (con conseguente sospensione del Piano nazionale sugli inceneritori), c’è tra le altre la questione delle scorie, assai tossiche e pari al 30% del materiale bruciato (per le quali sono necessarie discariche speciali).
Eppure l’altra sera in aula non c’erano rappresentanti delle organizzazioni contadine locali. Strano che non si allarmino. Anche perché sarebbe arduo intervenire col senno di poi: i contributi provinciali difficilmente possono servire anche a «bonificare» decenni di avvelenamenti.
E proprio dell’impatto ambientale del progetto trentino si è occupato il professor Virginio Bettini, docente all’Istituto universitario di architettura di Venezia e già europarlamentare, che ha posto l’accento sulle numerose e imperdonabili manchevolezze dello studio utilizzato per supportare la scelta dell’inceneritore. Un altro dato emerso chiaramente nel convegno è che ogni altra denominazione dell’impianto è un eufemismo: di inceneritore si tratta e la «valorizzazione energetica» è soprattutto una formula edulcorante con la quale i costruttori «vendono» il redditizio progetto agli amministratori pubblici.
Lo ha spiegato con dovizia di dettagli teorici e una mole di dati empirici Marino Ruzzenenti, ricercatore dell’associazione Cittadini per il riciclaggio di Brescia, che ha illustrato in chiave critica l’esperienza della città lombarda. Ruzzenenti delinea il fallimento del modello inceneritore, che conviene solo ai costruttori e ai gestori dell’impianto per i quali è un imponente business (considerata anche la vendita «agevolata» della poca energia elettrica prodotta che la legge, bontà sua, equipara a quella da «fonti rinnovabili» e dunque finanzia generosamente). Ma per la cittadinanza e il territorio significa legarsi a un processo sostanzialmente irreversibile che perpetua il pensiero unico della produzione costante di rifiuti, oltre naturalmente a presentare potenziali rischi sanitari e ambientali ampiamente documentati dalla letteratura epidemiologica nonché – nel caso di Ischia Podetti – dalle osservazioni di Medicina democratica e di altri esperti sullo studio di impatto ambientale dell’eventuale inceneritore trentino.
Lo studioso bresciano ha presentato un articolato esame comparativo tra il caso bresciano e il cosiddetto «modello veneto» che si regge sulla raccolta differenziata porta a porta (che supera in varie zone del Padovano e del Trevigiano il 60% dei rifiuti). Dall’analisi emergono dati molto interessanti sugli sprechi e le diseconomie del modello inceneritore e, d’altra parte, sulla sostenibilità e sul meccanismo virtuoso messo in atto dall’approccio veneto: tra l’altro l’attenzione al riciclaggio, oltre a lasciare un residuo facilmente gestibile nei pochi impianti esistenti, ha effetti positivi sulla riduzione dei rifiuti prodotti dalle popolazioni e sul recupero di biogas da trasformare in energia elettrica davvero «pulita».
A Trento queste analisi comparative sono state archiviate frettolosamente nel nome dell’incenerimento dei rifiuti: un orientamento che asseconda l’attuale modello di sviluppo insostenibile, dominato dal paradigma trasversale dell’impresa di mercato tout-court e della mercificazione sfrenata dell’esistenza.
Di fronte a queste scelte, compiute anche da amministratori pubblici che si candidano sotto le insegne dell’ecologismo, fa trasalire il silenzio della gran parte delle associazioni ambientaliste locali. Un silenzio rimarcato, anche sabato scorso, dal referente rifiuti ed energia del Wwf veneto, Gianluigi Salvador, che ha pesantemente criticato l’assenza in aula dei rappresentanti trentini del suo stesso sodalizio ecologista (e di quasi tutte gli altri).
Sorprende anche il disinteresse delle amministrazioni locali, da Trento alla Rotaliana, il cui territorio subirà gli effetti dell’inceneritore: il sindaco di Lavis, Graziano Pellegrini, non ha fatto troppi giri di parole nel sottolineare l’ingiustizia subita da un Comune che già oggi ricicla oltre il 50% dei suoi rifiuti, ma anche nel menzionare la vaporosità dei municipi vicini, sordi su questa inquietante vicenda.
Per parte sua, l’assessore alla Salute, Lorenzo Lorenzoni, con un tono fin troppo rassegnato e riverente ha annunciato la sostanziale resa del Comune perché ormai «l’inceneritore è una priorità assoluta per la Provincia». Una resa un po’ prematura, se davvero si è convinti che il progetto contestato produrrebbe malattia, morte, danni ambientali e socioeconomici in parte irreversibili.
Tutta questa storia evoca tragicamente il «Nemico del popolo» di Ibsen, il dramma di un medico, Thomas Stockmann, che denuncia l’inquinamento dell’impianto termale che dà lavoro a un’intera cittadina norvegese: il suo coraggio e la sua onestà gli si ritorceranno contro.
Il Trentino sta sacrificando alla solitudine, all’incomprensione e al pubblico sabotaggio i suoi (non pochi ma invisibili) dottor Stockmann, rei di aver gridato una verità socialmente e politicamente insostenibile dentro gli ingranaggi di una democrazia inceppata, schizofrenica, impudentemente gerarchica e non di rado spietata.
Aggrava questo scenario grottesco una constatazione amara: che nei luoghi di elevata concentrazione di potere, le politiche dell’incenerimento siano condotte, assecondate o ispirate anche da sedicenti adepti o conclamati celebratori del verbo di Alex Langer.
Ma lui, Alex, sui rifiuti aveva altre idee, molto nette e lontane dal modello «produzione purché sia, consumo purché sia, incenerimento e così sia». Lontane anni luce.
* Articolo pubblicato dal quotidiano di Trento l’Adige del quale l’autore è redattore.