Succede sempre più spesso che l’ente pubblico, a ogni livello, adotti senza un processo di condivisione popolare decisioni di enorme impatto sulla qualità della vita umana e dell’ecosistema.
La desertificazione della democrazia è il filo (spinato) di continuità che attraversa innumerevoli territori della vita comune, dalla mobilità alla questione rifiuti, dall’urbanistica alla gestione dei servizi essenziali. Ma il processo di desertificazione, di sottrazione sistematica agli individui e alle comunità degli spazi di autodeterminazione dei bisogni reali e spontanei, avanza con modalità irregolari, striscianti e particolarmente maligne: non di rado le vittime sono trasformate in complici obbligati. Sono elementi che creano consenso sociale passivo lo stato di precarietà e l’illusione di emancipazione; la seduzione mercantile esercitata dalle istituzioni che catalizzano il monopensiero dell’economia politica neoclassica (università, mass media, organismi politici rappresentativi); la difesa di conquiste materiali nella mancanza di modelli alternativi altrettanto certi, percepibili e desiderabili.
In questo quadro potrà apparire ovvio a un cittadino normale che l’ente pubblico si preoccupi innanzitutto del benessere delle imprese di mercato e che siano esse il punto principale all’ordine del giorno, perché ciò sottende l’assunto secondo il quale dalla “salute” degli operatori economici deriva in ogni caso quella dell’universalità dei cittadini. Il che è, tuttavia, facilmente confutabile anche solo prendendo in considerazione la quantità enorme di costi sociali che le imprese trasferiscono sulla collettività sotto forma di malattia e morte di esseri umani (normalmente dei più deboli e poveri) e di danni irreversibili e non provocati all’ambiente naturale. Questo processo che nel nome del profitto d’impresa scarica costi all’esterno (non risarciti) tende ad accentuarsi in misura direttamente proporzionale al grado di deregolamentazione dell’economia (più concorrenza uguale più comportamenti selvaggi con conseguente aumento della morbilità e della mortalità) e inversamente proporzionale al grado di controllo previsto dal legislatore ed esercitato dalle autorità preposte alla verifica dell’applicazione normativa.
Nonostante la mole di dati empirici che mette a nudo le dimensioni di questo fenomeno, l’ente pubblico nella nostra epoca tende ad accelerare il processo che lo vede agire nel contesto sociale come un supporto dell’iniziativa economica privata. In altre parole, anziché mettere in atto correttivi per ridurre i costi sociali causati dalle imprese e per costringere a risarcire i danni provocati, le finanziano affinché continuino a farne.
Eclatante, in proposito, il ruolo del sistema del traffico e della mobilità, che da un lato rappresenta un grande bacino d’affari per le industrie del settore (costruzioni, automobilistiche, trasporti eccetera) e dall’altro uno strumento per trasferire sulla collettività costi d’impresa (magazzino merci, trasporti su gomma). Risulta incomprensibile, dall’ottica di un legislatore che debba premurarsi di moderare fino all’annullamento fenomeni gravemente lesivi della salute pubblica, come il traffico a motore, che l’ente pubblico italiano assista da anni alla crescita di questo fenomeno deleterio e che, per giunta, risponda con la previsione di nuovi progetti infrastrutturali alle proiezioni che vedono l’attuale modello economico produrre nei prossimi anni sensibili aumenti del volume di spostamenti di automobili e sopratutto di mezzi pesanti sulle nostre arterie urbane e extraurbane. L’esplosione del traffico risponde sostanzialmente a un’esigenza precipua delle imprese di mercato, sia essa quella di negare orari di lavoro ridotti ai propri (sempre più precari) impiegati costretti generalmente a fare le corse per riuscire a “vivere” nelle 24 ore disponibili tra figli, parcheggi, asili e code in tangenziale, sia essa quella di ridurre i costi di magazzino (e la conseguente immobilizzaizone di capitali nelle scorte) trasferendo sui Tir i nuovi magazzini in una grande giostra continua che avvelena l’Italia e l’Europa nel nome delle consegne “just in time” e delle delocalizzazioni che ti fanno perdere il posto di lavoro e guadagnare un po’ di aria contaminata.
In questo contesto è evidente che le ragioni dell’uso del corpo umano per spostarsi nella vita quotidiana e in particolare della bicicletta (lo strumento più funzionale allo scopo) non hanno cittadinanza alcuna e che le istanze di chi si batte contro questa pubblica negazione di un’ovvietà come pedalare sono ragioni destinate a scontrarsi con il muro di gomma (piuma) di un modello di sviluppo che tutto fagocita nel nome dell’impresa di mercato e del dogma liberista. Di là da una serie di concessioni urbanistiche, utili peraltro a salvare un certo numero di vite umane (in termini di riduzione degli incidenti e dell’inquinamento atmosferico), sarà impossibile andare avanti senza mettere in discussione una serie di feticci dei quali l’automobile è soltanto una tragica metafora, vittima essa stesa dell’abuso di cui è oggetto. I veri feticci sono il mito dell’impresa di mercato che va idolatrata e ha sempre e comunque sia la precedenza (basti pensare alla tragica banalità del Petrolchimico, simbolo del conflitto tra salute e lavoro, tra il pane e la libertà, ma anche alle ormai annose diatribe che esplodono in tutte le città tra persone comuni e la lobby industriale o commerciale su questioni come la creazione di isole pedonali o di altre infrastrutture di mobilità alternativa); ne consegue il mito del lavoro così come viene (e veniva) inteso nella nostra epoca dal pensiero unico neoliberista (ma non solo: l’incapacità marxista di metterne realmente in discussione la centralità è una delle ragioni della mancata rivoluzione dal volto umano); e dunque il mito della produzione che induce i consumi in un circolo vizioso nichilista che lascia poche vie di uscita, se non in bicicletta per pedalare e lavorare con lentezza; ma anche la questione della proprietà privata (e dello snaturamento dell’idea di condivisione e di gestione pubblica) di cui è simbolo banale lo scontro tipico sugli espropri che si presenta spesso al momento di tracciare una pista ciclabile.
L’ente pubblico anziché porre un freno e contrastare anche con le politiche fiscali i fenomeni dannosi che generano malattia e morte (dal traffico alle produzioni letali), le sponsorizza e se ne vanta pure, nel nome del (sempre più presunto) bene comune.
Travolti da questa potenza di fuoco persuasiva che preme per indurci a ragionare con la testa di un’impresa di mercato, potremmo facilemente convincerci che in fondo un inceneritore, soprattutto se chiamato termovalorizzatore di risorse rinnovabili, è l’unico modo per affrontare il problema dei rifiuti che siamo deterministicamente “destinati” a produrre perché questo è l’unico modello di sviluppo in grado di assicurarci un futuro radioso (e mettere in discussione i rifiuti significherebbe dubitare del modello…). Ci convinceremo anche che bruciare i rifiuti (“residui”) è compatibile con la raccolta differenziata (poco conta se per far girare il redditizio impianto bisognera importarli da lontano); e andrà da sé che i rischi per la salute sono pressoché inesistenti come dimostrano ampiamente gli studi forniti dalle Università neoliberiste agli enti pubblici neoliberisti che commissionano alle imprese neolioberiste la costruzione degli impiani gestiti da società “privatizzate” nel nome del neoliberismo che restituiranno anche buone quantità di denari nelle casse pubbliche (bruciare i rifiuti, si sa, è un business) che saranno naturalmente utilizzati per costruire nuove strade e viadotti per i Tir del neoliberismo che portano i rifiuti nell’inceneritore del neoliberismo.
L’inceneritore del neoliberismo?
(Zenone Sovilla)
Inceneritori, biciclette e democrazia negata
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