di Roberto Cuda
E’ arrivata. La crisi argentina, largamente annunciata da tre anni di recessione, è esplosa nella rabbia popolare. Mentre scriviamo c’è già chi parla di guerra civile.
(gennaio 2002) E’ arrivata. La crisi argentina, largamente annunciata da tre anni di recessione, è esplosa nella rabbia popolare. Mentre scriviamo c’è già chi parla di guerra civile. Decine di morti, un nuovo governo, città distrutte ed un popolo affamato. Nei giorni caldi rubavano di tutto per le vie di Buenos Aires, perfino gli alberi di Natale, mentre il Fondo monetario internazionale (Fmi) si apprestava a chiudere per ferie, senza nemmeno convocare una riunione d’urgenza. Questa l’attualità, ma per capire quello che è successo occorre fare qualche passo indietro, scavando in una storia, quella argentina degli ultimi anni, fatta di prestiti internazionali, tagli alla spesa pubblica, speculazioni, miseria e le solite speranze nel potere taumaturgico del mercato.
Verso il libero mercato
Con il governo Menem (1989, coalizione di destra), inizia il periodo delle riforme. Obiettivo: la completa liberalizzazione dell’economia. Anzitutto per riacquistare la fiducia internazionale e far riaffluire i capitali stranieri, che nel frattempo avevano scelto economie più affidabili, ma anche per conformarsi ai dettami del Fmi, condizione irrinunciabile per ottenere nuovi prestiti. In quasi quattro anni tutte le aziende statali sono state privatizzate, in tutto o in parte, incluse telecomunicazioni, gas, petrolio (nel 1993 è stata ceduta il 45% della compagnie petrolifera di stato), ferrovie e compagnie aeree. Le Aerolineas Argentinas, ceduta nel 1990 ad una compagnia spagnola, è oggi sull’orlo del fallimento, con un miliardo di dollari di debito e 7000 dipendenti a rischio, che nel giungo scorso hanno bloccato per protesta l’aeroporto internazionale di Ezeiza. Poi tagli alle tariffe doganali e maggiore apertura alla concorrenza straniera.
La parità fissa peso/dollaro
Ma il provvedimento che ha reso famoso l’allora ministro dell’economia Domingo Cavallo (passato poi al governo di sinistra, ora dimessosi) è meglio conosciuto come Plan de convertibilidad (1991), la legge che ha introdotto la parità fissa tra il peso argentino e il dollaro Usa. Si tratta di una misura drastica, approvata con l’obiettivo di bloccare l’inflazione. Il “currency board” (così viene definito in gergo il provvedimento) ha fondato per dieci anni l’intero sistema monetario argentino ed è oggi additato come una delle principali cause della crisi.
Con questa decisione, presa in accordo con il governo Usa, viene stabilito un cambio fisso tra le due monete, sancito in Argentina da una legge avente valore costituzionale. Per ogni peso è assicurato il cambio alla pari con la moneta americana, privando però il paese della propria autonomia in termini di politica monetaria: ogni decisione in quest’ambito dovrà essere presa con l’amministrazione Usa.
Il cambio fisso ha avuto l’effetto immediato di bloccare la svalutazione del peso, quindi ha consentito all’Argentina di importare beni dall’estero ad un prezzo stabile e non più fluttuante (e crescente) come in passato, stroncando l’inflazione a quattro cifre che attanagliava l’economia. Ma come tutte le misure drastiche c’è anche l’altra faccia della medaglia. Per mantenere il cambio fisso ed evitare che la moneta argentina perda valore, occorre sostenere la domanda di pesos (che tiene alto il valore della moneta) attraverso un afflusso consistente di dollari nel paese (poi cambiati in moneta locale).
In che modo è possibile attrarre dollari? Anzitutto alzando i tassi di interesse interni (e, di conseguenza, la remunerazione dei titoli di Stato ed obbligazioni private), in modo da incentivare l’acquisto di titoli da parte degli investitori americani. Ma quando salgono i tassi d’interesse aumenta anche il costo del denaro preso in prestito dalle aziende argentine, nonché dagli stessi cittadini (ad esempio i mutui per la casa) e questo costituisce un potente freno all’economia. Un altro ostacolo riguarda invece le esportazioni. Quando una moneta mantiene alto il suo valore di cambio diventa più difficile esportare, poiché gli acquirenti esteri dovranno sborsare somme maggiori. Ecco perché la svalutazione, al contrario, favorisce gli scambi commerciali, pur avendo altri inconvenienti.
Nonostante ciò l’Argentina se l’è cavata per diversi anni grazie ad una moneta brasiliana (real) anch’essa ancorata al dollaro (ricordiamo che il Brasile è tuttora uno dei principali partner commerciali). Ma quando all’inizio del 1999 è stato svalutato il real, venendo meno la parità col dollaro, per l’Argentina è stato l’inizio di una grave recessione, dovendo esportare i propri beni e servizi a costi molto maggiori (praticamente il doppio, visto la perdita di oltre il 50% del valore della moneta brasiliana). Dunque meno esportazioni, già compromesse da un dollaro a quei tempi molto forte.
Le spine del governo De La Rua
10 anni di governo Menem hanno consegnato al successore Fernando De La Rua (salito al potere nell’ottobre 1999 con la coalizione di sinistra) un paese stremato da un’economia in continuo peggioramento. Nuovo governo, ma vecchie ricette economiche, portate avanti dallo stesso ministro dell’economia, Domingo Cavallo. Quindi tagli alla spesa pubblica e aumento delle tasse, con l’obiettivo di riconquistare quello che è tutt’oggi un imperativo per qualunque economia: la “fiducia dei mercati”, che spesso coincide con quella degli investitori stranieri. Stiamo parlano soprattutto di banche, fondi comuni d’investimento (tra i quali i famosi “edge funds”, i fondi altamente speculativi), fondi pensione e investitori privati. Sono loro che finanziano l’economia argentina comprando titoli pubblici, obbligazioni e azioni, che poi alimentano la produzione di beni e servizi, sia pubblici che privati. L’afflusso di capitali, come abbiamo visto, tiene stabile anche il cambio peso/dollaro, evitando possibili (e pericolose) svalutazioni. Ecco perché la fiducia degli investitori deve essere garantita ad ogni costo. In caso contrario potremmo avere una “fuga di capitali”, che priverebbe il paese di importanti risorse, provocando svalutazione, inflazione e disoccupazione. Per evitare tutto questo il governo deve dimostrare di avere i conti “in regola”, anzitutto spendendo meno ed evitando divanzi (spese superiori alle entrate).
Ma questo significa anche tagliare spese di interesse pubblico come sanità, istruzione, pensioni e stipendi pubblici. Al tempo stesso sarà necessario dimostrare di voler liberalizzare l’economia, togliendo qualunque restrizione al libero commercio, come dazi doganali, leggi sul controllo dei capitali o misure fiscali che possano gravare sui guadagni delle imprese o sui redditi più alti.
Le misure prese dal governo De La Rua sono conformi alle ricette economiche del Fmi (meglio conosciute come “Piani di aggiustamento strutturale”), che l’istituto internazionale pone come condizione per concedere nuovi prestiti. E’ quanto avvenne con il credito di 39 miliardi di dollari concesso a fine 2000, deciso dal Fondo per evitare una nuova ondata di “sfiducia” da parte dei mercati e possibili fughe di capitali, nonché l’impossibilità per l’Argentina di restituire i debiti contratti (default). Le condizioni richieste dal Fmi consistevano in un congelamento per cinque anni dei bilanci delle provincie, nell’allungamento dell’età pensionabile (da 60 a 65 anni) e in un programma di smantellamento del sistema di sicurezza sociale.
Per onorare gli impegni presi a livello internazionale, il governo approvò (fine luglio 2001) il piano “deficit zero”, che conteneva una serie di provvedimenti per arrivare alla parità di bilancio. Tra questi il prelievo del 13% su stipendi pubblici e pensioni superiori a 1,1 milioni di lire ed un meccanismo che agganciava gli stessi all’andamento delle entrate (il che significava di fatto una diminuzione media intorno al 30%). Tutte queste misure furono naturalmente ben accolte dai mercati ed alzarono l’indice JP Morgan sul “rischio paese” (misura che indica agli investitori il rischio economico legato agli investimenti in un paese). E’ di questo periodo anche la decisione del Fmi di anticipare un ulteriore prestito di 1,2 mld di dollari. La situazione sociale, tuttavia, non migliora, si intensificano le proteste in tutta la nazione e la fiducia dei mercati, già appesa a un filo, precipita.
L’atteggiamento di sfiducia risulta chiaro dalle valutazioni pessimistiche delle maggiori agenzie internazionali di rating, società incaricate di valutare l’affidabilità economica e finanziaria dei titoli emessi da un governo, indirizzando le scelte di investimento degli operatori (tra queste le potentissime Moody’s e Standard & Poor’s, che in quel periodo declassarono il proprio rating sui titoli Argentini).
A fine agosto viene accordato dal Fmi un nuovo prestito di 22 mld di dollari, a patto che il governo si impegni ad applicare rigorosamente l’obiettivo “deficit zero”, ma questo non cambia l’atteggiamento degli investitori. I prestiti del Fmi servono spesso a pagare vecchi debiti in scadenza, contratti non di rado con banche occidentali, in modo da evitare l’insolvenza e non scoraggiare i mercati. Ma in questo modo si accendono nuovi debiti con il Fmi, che potrà così imporre al paese i citati Piani di aggiustamento strutturale. La storia si ripete ormai da molti anni ed è sotto gli occhi di tutti, compresi gli stessi analisti finanziari, come le ricette del Fmi abbiano finora solo peggiorato situazioni economiche e sociali già molto precarie. “Il fiasco in Argentina è solo l’ultimo di una serie di fallimenti delle politiche del Fmi iniziati nel 1994, tra i quali i più rilevanti si sono avuti in Messico, Indonesia, Russia e Turchia”, così scriveva il 22 dicembre scorso l’insospettabile “The Wall Street Journal Europe”.
In leggera controtendenza rispetto ai progetti di liberalizzazione è stato il “Plan de competitividad”, lanciato nell’aprile 2001 dal ministro Cavallo con l’obiettivo ambizioso di rilanciare la produzione interna, ma che finì per aggravare l’andamento già recessivo dell’economia. Aumento dei dazi doganali (dal 20 al 35%) per tutti i beni di consumo provenienti di paesi extra Mercosur, azzeramento dei dazi sui beni d’investimento ed un aumento dell’imposta sulle transazioni finanziarie ed i conti correnti, sono alcune delle misure introdotte. Il rischio di un aumento dei prezzi interni suscitò le reazioni negative di molti analisti.
Disoccupazione e debito
Il resto è cronaca. A fine novembre, com’è noto, vengono congelati i depositi bancari, stabilendo una quota massima di prelievo di 1000 pesos al mese (2 milioni e 200 mila), mentre vengono dollarizzati i depositi e i prestiti verso le imprese e la pubblica amministrazione. Ma il paese è ormai al collasso. La povertà (aumentata senza sosta dal 1995, secondo i dati della Banca Mondiale) supera ormai il 22% e la disoccupazione è al suo massimo storico: 18,3%, per un totale di 2,5 milioni di persone, a cui bisogna aggiungere altrettanti sottoccupati. La crescita economica è ferma dal 1998, mentre per il 2001 è prevista una diminuzione del Pil dell’1,4% (stima Fmi).
Il nuovo presidente populista Adolfo Rodriguez Saà non è intenzionato a svalutare il peso dall’oggi al domani, come vorrebbero invece i mercati, preferendo una svalutazione “guidata” e graduale. Il motivo, incontestabile, è che il 95% del debito pubblico e l’80% di quello privato sono in dollari e un’eventuale svalutazione farebbe crescere a dismisura le somme da rimborsare. La questione riguarda da vicino soprattutto le numerose famiglie argentine (circa l’80%) che stanno pagando il mutuo per la casa, naturalmente in dollari. Ma il governo ha già detto che non pagherà i debiti esteri in scadenza, con buona pace dei fondi americani e delle grandi banche europee. In piazza, intanto, continuano le proteste di un popolo esasperato.
Oggi il debito argentino sfiora i 150 mld di dollari. Quasi la metà fa capo alla banche ed i principali paesi creditori sono, nell’ordine, Spagna, Usa, Germania, Gran Bretagna e Italia. I crediti italiani ammontano a circa 4,5 miliardi di euro, di cui 2,5 si riferiscono ad operazioni a breve termine, effettuate sull’onda degli alti tassi di interesse garantiti dalle obbligazioni argentine. Intesa Bci, Bnl e San Paolo di Torino sono tra le maggiori banche creditrici, ma bisogna considerare anche i tanti risparmiatori privati. Si calcola i titoli del debito estero argentino in mano agli italiani ammontino fino a circa 12-15 miliardi di euro, tenuto conto che la maggior parte del debito è oggi denominato in dollari. Hanno scritto recentemente alcuni esponenti della finanza etica italiana: “il governo e le banche private (italiane) diano respiro al popolo argentino riscadenzando e ristrutturando almeno i debiti a breve termine, 2,5 miliardi di euro, sospendendo le riscossioni del servizio del debito (rate formate dal capitale più gli interessi, ndr) e cancellando l’equivalente dei debiti illegittimi contratti vent’anni fa dal regime militare e poi pagati dall’Argentina democratica, nel caso dei crediti italiani non meno di 1 miliardo di dollari”.
Per non concludere
Ci permettiamo, a questo punto, di concludere con qualche considerazione. Non da esperti, non essendo tali, ma da persone abituate, quantomeno, a porsi delle domande. Tralasciamo l’impatto, evidentemente insostenibile, delle misure del Fmi (che tuttavia continuano ad essere imposte ai paesi indebitati come modello di buongoverno dell’economia e rappresentano, almeno nelle linee guida, il paradigma oggi dominante su scala mondiale). Ma dietro l’evidenza dei piani del Fmi, prospera un mercato finanziario che fa il bello e il cattivo tempo delle economie in difficoltà. Scorrendo gli articoli sulla crisi argentina dei principali quotidiani economico-finanziari degli ultimi sei mesi, è un susseguirsi di richiami alle “aspettative” degli investitori, alle possibili fughe di capitali, al giudizio inappellabile delle agenzie di rating e delle maggiori società finanziarie. Sono loro i veri destinatari delle politiche economiche degli stati. E a loro, paradossalmente, devono rendere conto i governi, anziché ai popoli che li hanno eletti.
Sono loro che investono massicciamente quando i tassi sono alti, lasciando il paese in braghe di tela quando le cose peggiorano. I capitali vanno con la stessa facilità con cui arrivano, senza controlli o restrizioni, lasciando sul campo disoccupazione e miseria.
Ma gli investimenti arrivano solo se il governo dimostra di “saperci fare”, cioè si impegna ad uscire di scena in punta di piedi, tagliando spese “improduttive” come sanità, istruzione e pensioni, quando detassa gli utili delle imprese e lascia il campo libero al mercato. Questo è stato il “deficit zero” del governo De La Rua, ma potremmo anche dire la politica economica argentina degli ultimi vent’anni. Solo allora fondi comuni, fondi pensione, banche e investitori privati decideranno di impiegare i propri soldi i quali, beninteso, dovranno fruttare alti rendimenti, strozzando ulteriormente economie già traballanti.
E se le misure dei governi non bastano interviene il Fmi, che in caso di insolvenza penserà a coprire le perdite gli investitori, proteggendoli dalle loro stesse speculazioni. Perché, si dice, bisogna proteggere i risparmiatori (oltre ai bilanci delle società finanziarie). I risparmiatori, appunto.
Pensiamoci bene quando investiamo qualche somma: in quei fondi comuni, in quei fondi pensione e in quelle banche ci sono i nostri soldi.
Roberto Cuda