ipensieri&sentieri
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L'infelicità di bambini
poco liberi e di educatori socialmente corretti
grandi? Sempre più “difficili”? Probabilmente, lo sapevate, È’ una storia che si sente in giro; anche se bambini non si hanno. Famiglie improbabili, tripli lavori, tempi sociali che soffocano i tempi biologici, televisione, spazi precari di incontro con l’altro. Forse tutto ciò frammisto anche a uno spontaneo e inconsapevole moto “illuminato” di genitori postmoderni che non vogliono opprimere i figli ma non trovano la misura adeguata. Alla fine, se non ricorrono a tragici clichè autoritari, facendo danni anche peggiori, si rassegnano al disarmo pedagogico, alla disattenzione verso i bisogni reali dei bambini che identificano invece nelle forme dell’avere (cioè in una manifestazione superficiale di una domanda d’altro). Risultato: bambini “difficili”. Con i quali, poi, deve fare i conti innanzitutto la scuola. Che pare disorientata più dei bimbi smarriti che si trova di fronte. Barcolla, sembra, anche un certo approccio “progressista” sintetizzabile nella formula "se non puoi liberare il bambino, almeno faglielo credere". Viene in mente Fromm: "Il nostro sistema economico deve creare individui adeguati alle sue necessità, che vogliano consumare sempre di più. Ha bisogno di individui che credano di essere liberi e indipendenti ma che, ciò nonostante, si comportino così come ci si aspetta da loro, uomini che si inseriscano senza attriti nella macchina sociale, che possano essere guidati senza ricorso alla forza”. Già, tanto sono “difficili” questi bimbi che anche la falsa libertà che ritroveranno da adulti talora viene negata loro da piccoli e riemergono nella scuola tentazioni vagamente autoritarie per tenerli a bada, ferree definizioni gerarchiche dei ruoli maestro-alunno. Non c’è altro da fare, sono bimbi così “difficili”, gli dai un dito e si prendono il braccio: l’auto-difesa del singolo educatore, debole e frustrato, è scontata. Rimane un dettaglio: “Non esistono bambini difficili, solo bambini infelici" (A. S. Neill, Summerhill School). Allora, se di fondo c’è davvero l’amore per la vita, a un infelice si dovrebbe donare un po’ di felicità, non dure dosi di ansia e paura. Si può discutere, al limite, se libero sia felice (noi crediamo di sì...). Ma è urgente almeno tentare questa via della libertà autoresponsabile. Se la scuola e i suoi soggetti sono lì per lasciar crescere l’infanzia libera e consapevole, se ancora esiste un'idea di onestà intellettuale, non sembra troppo pretendere magari non ardue risposte perfette qui e ora ma almeno che davanti al disagio si affronti la fatica di cercare altre strade: “Un genitore serio non sa cos’è un genitore: se lo sa non è più serio - un professore serio ha molti dubbi sul suo ruolo: se non ha dubbi è pericoloso» (padre Enersto Balducci). A che cosa servono, altrimenti, esperimenti riusciti come la scuola libertaria di Neill (Summerhill), o Tolstoj, Ferrer, Illich, gli asili di Reggio Emilia, don Milani e tutto il resto? Certo, siamo in un circolo vizioso, la complessità è disarmante, la catena dura da spezzare. Ma da qualche anello si può cominciare? C’è qualcuno disposto a uno sforzo supplementare di assunzione di responsabilità? In questa grande battaglia per i diritti fra pubblico e privato resta traccia di un qualche dovere etico?
“Nessuno educa nessuno, gli uomini si educano insieme” (Paulo Freire).
(Zenone
Sovilla, 15 marzo 2000)
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o | Sui
temi della
pedagogia libertaria anche un'intervista con Marcello Bernardi |
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